Negli ultimi venti anni in cui io sono rimasto alla Cambiano la Banca era diventata, come abbiamo visto, sempre più robusta.
Al di là dei bellissimi risultati finali degli ultimi tre anni, già al momento della celebrazione del centenario della Banca, nel 1984, noi avevamo un patrimonio di 20 miliardi e seicento milioni, un volume di depositi di 112 miliardi e 318 milioni e una somma di impieghi di 48 miliardi e 781 milioni. Avevamo costituito un istituto solidissimo che aveva soprattutto la fiducia dell’utenza e libero da qualsiasi interferenza. L’autonomia della Banca che io ho difeso fino alla fine pagando di persona ci ha permesso di far rientrare nel circolo dell’economia locale i capitali che noi raccoglievamo senza dirottarli verso altre provincie o alle regioni. Abbiamo moltiplicato la ricchezza del nostro territorio e non di un altro, abbiamo creato occupazione nella Valdelsa e non a Vattelapesca.
Gli ultimi risultati raggiunti dalla Banca ci consentirono di usare i profitti raggiunti per donazioni e oblazioni alle varie istituzioni e associazioni locali necessarie per l’attività che svolgevano. Naturalmente per aiutare era necessario prima di tutto avere risorse a disposizione. Anche Gesù prima moltiplicò i pani e i pesci e poi li distribuì. Le risorse che avevamo accumulato con il nostro lavoro e con la nostra intraprendenza ci permettevano ora di sovvenire le varie esigenze senza danneggiare il patrimonio della Banca, che non era una proprietà di Tizio o di Caio, ma un bene comune di tutti i soci. Abbiamo dato a molti senza pubblicizzare troppo, senza attaccare manifesti e senza chiedere grandi titoli sui giornali per ostentare e mettere in piazza la nostra carità. So benissimo che questa discrezione che noi allora osservavamo era addirittura contraria all’andazzo corrente, per cui le imprese e le banche sponsorizzano le loro iniziative per ricavarne un utile di ritorno in fatto di immagine. Purtroppo nel nostro tempo anche la solidarietà è diventata molto spesso un sottoprodotto della pubblicità.
Ma io, forse a torto, ho almeno finora, tenuto presente su questo punto la lezione del Vangelo: “Quando dunque tu fai l’elemosina non suonare la tromba davanti a te come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade, per essere onorati dagli uomini. In verità io vi dico hanno già ricevuto la loro ricompensa. Ma quando fai elemosina non sappia la tua sinistra quel che fa la tua destra”.
Tuttavia ora che io non sono più alla Cambiano e il ricordo di quel che allora fu fatto non può certo ritornarmi indietro in fatto di pubblicità o di acquisizione di nuovi clienti, posso ricordare, seppure discretamente e per sommi capi, ciò che allora facemmo anche in questa direzione.
L’ospedale di Castelfiorentino, che è stato sempre nel cuore dei castellani come un’istituzione fortemente sentita e vissuta, ha ottenuto dalla mia Banca d’allora numerosissime donazioni fin dal tempo in cui il maestro Ermanno Ciampalini era Presidente dell’Ospedale Santa Verdiana e contemporaneamente membro del Consiglio di Amministrazione della Banca. L’ultima donazione all’Ospedale di Santa Verdiana risale al 20 febbraio 1999. Si può calcolare che in totale all’ospedale di Castelfiorentino siano state fatte donazioni per circa tre miliardi di lire.
Abbiamo dato un miliardo per il recupero del Teatro del Popolo da oltre venti anni in disuso. Abbiamo concesso notevoli facilitazioni e contributi per terminare la costruzione della nuova palestra di Sportlandia. Abbiamo concesso 500 milioni all’opera di Santa Verdiana per la sistemazione della Pinacoteca. Abbiamo dato un miliardo e duecento milioni per la ristrutturazione della Casa di Riposo Ciapetti. Abbiamo contribuito ad acquistare varie autoambulanze delle Misericordie di Castelfiorentino, di Gambassi e di Empoli e delle Pubbliche Assistenze di Empoli.
Spesso anche nella mia attività di dirigente della Banca ho tenuto più conto dei casi umani che mi si presentavano che della fredda contabilità dell’avere e del recuperare. Finché mi è stato possibile ho cercato sempre di conciliare l’interesse della Banca e l’interesse dei clienti. Talvolta sono andato anche oltre facendomi avvocato di cause che strettamente non mi spettavano e protettore di persone che non riuscivano da sole a tirarsi fuori dalle brutte acque in cui si erano cacciate.
Vorrei raccontare a questo proposito un episodio significativo fra gli ultimi che mi sono capitati.
Nel marzo del 1998 ricevetti nel mio ufficio la visita di una giovane coppia. I due giovani mi raccontarono che avevano molto tempo prima firmato il preliminare di acquisto di un appartamento. Il compromesso era stato fatto con un’impresa edile di Empoli che stava costruendo un fabbricato condominiale di 15 appartamenti nel comune di Montelupo. I due ragazzi avevano già pagato all’impresa l’ottanta per cento del prezzo concordato per il loro quartiere ma la costruzione era ancora lontana da essere ultimata. La giovane coppia avrebbe voluto formalizzare l’acquisto con un regolare contratto di compravendita. Avevano quindi bisogno di un modesto mutuo e per questo si erano rivolti alla loro Banca di fiducia. Ma dalla Banca, che avevano interpellato si erano sentiti rispondere che non potevano concedere il prestito perché sul costruendo fabbricato c’era un’ipoteca della Banca di Cambiano. Il fatto mi parve subito tutt’altro che chiaro. Pensai che i motivi per cui la giovane coppia non riusciva ad ottenere il mutuo e a stipulare il contratto definitivo di acquisto dovevano essere ben altri.
Immaginavo già quali potevano essere, ma preferii per il momento prendere tempo e informarmi meglio. Pregai i due di ripassare dopo qualche giorno e sarei stato più preciso nel dar loro dei consigli. Se ne andarono molto preoccupati dopo avermi lasciato indirizzo e numero di telefono.
Esaminai subito la pratica e mi accorsi che oltre alla nostra ipoteca insistevano sul cespite alcune iscrizioni ipotecarie di altri istituti e addirittura un pignoramento immobiliare a favore di un fornitore. La nostra ipoteca era al primo grado e poi seguivano le altre e infine il pignoramento. Era più che evidente che le cose erano messe male per tutti coloro che credevano di poter diventare proprietari degli appartamenti.
Chiesi al geometra Giolli di Castelfiorentino di verificare la rispondenza delle costruzioni alle licenze edilizie comunali. Anche in questo caso il responso era preoccupante: le licenze non erano state rispettate anche se le violazioni potevano essere sanate. L’impresa inoltre non aveva rispettato le distanze con il confinante ed era in atto una lite che poteva portare al sequestro conservativo del cespite ancora in costruzione.
Telefonai immediatamente a quei poveretti che, a loro insaputa, si trovavano così inguaiati. Chiesi loro se i quindici quartieri fossero stati venduti tutti su compromesso e se fossero stati pagati grossi anticipi. La risposta purtroppo fu affermativa.
Spiegai ai malcapitati la loro triste situazione. Li pregai di riunire le quindici famiglie interessate, di scegliersi un avvocato comune e di riunirsi poi alla mia presenza per studiare il da farsi. Per conto mio esaminai attentamente la situazione. A rigor di logica bancaria, la Cambiano avrebbe dovuto iniziare subito l’azione esecutiva contro l’impresa edile per il recupero del suo credito, visto lo stato quasi fallimentare della ditta. Ma quali sarebbero state le conseguenze per i poveri acquirenti caduti in questa trappola? La Banca avrebbe riscosso senza difficoltà il suo credito, con relativi interessi e spese, anche qualora la ditta fosse fallita. Le altre banche sarebbero venute dopo insieme al fornitore perché munite solo di ipoteche non ancora consolidate. Per ultimi sarebbero arrivati gli acquirenti che avrebbero recuperato con le briciole del fallimento solo una parte degli anticipi che avevano versato, rinunciando per sempre al sogno della loro casa.
Decisi di mettere da parte per un momento la prassi tradizionale delle banche e di cercare di venire incontro ai malcapitati, tutti lavoratori dipendenti o pensionati che per anni avevano messo da parte pazientemente uno sull’altro i soldi per acquistarsi la tanto sospirata abitazione.
Feci convocare quindi il Consiglio di Amministrazione e mi feci concedere un’ampia delega sulla questione.
Dopo alcuni giorni mi chiamò un avvocato fiorentino, la signora Manuela Grassi, informandomi che aveva assunto l’incarico di assistere gli sfortunati compratori, nonostante che il marito, avvocato anche lui, l’avesse sconsigliata per non apparire, come si dice, “avvocato delle cause perse”.
Il giorno successivo venne a trovarmi. Era una signora di mezza età, piuttosto elegante, dai modi gentili ma diffidente nei miei confronti. Sapeva come le banche si comportavano in certi casi e credeva di dover incrociate la spada con un nemico. Fui io a rompere il ghiaccio e a dirle che in fondo ero anch’io dalla sua parte. Ci dividemmo i compiti. Lei doveva tenere uniti i suoi assistiti, transare con il fornitore che aveva trascritto il pignoramento, sanare il contenzioso con il confinante, minacciare l’imprenditore delle sue responsabilità civili e penali se non avesse ultimato al più presto i lavori e sanato le sue irregolarità con il comune.
Io da parte mia dovevo convincere le altre banche che avevano ipoteche a giungere a una transazione.
Finalmente il 28 giugno, nella sala consiliare della Banca in Via Piave, stipulammo tutti e quindici i contratti di compravendita e di mutuo: i mutui furono tutti concessi dalla nostra banca. La cerimonia delle firme davanti al notaio durò ininterrottamente dalle nove del mattino fino alle nove di sera, senza nemmeno un’interruzione per il pranzo. Eravamo tutti ansiosi ed emozionati nel mettere finalmente la parola fine ad un incubo.
L’avvocatessa Grassi era raggiante. Ad un certo punto mi si avvicinò e mi chiese sottovoce – “Dottore, quanto gli dobbiamo per la sua opera?”
“Avvocato, vuole scherzare?” risposi io. Ma lei insisteva:
“Lei ha svolto un lavoro come professionista come me!” “Io ho fatto solo gli interessi della Banca. Se poi indirettamente
di questo mio operare se ne sono avvantaggiati i suoi assistiti sono doppiamente soddisfatto. Non si preoccupi, sono già pagato tutti i mesi dalla Banca per il mio lavoro”.
Cordialmente ci salutammo.
Nei primi giorni di luglio fui chiamato al telefono dal ragionier Pozzi, allora direttore della nostra filiale di Empoli:
“Direttore – mi disse – siamo sui giornali”. “Cosa c’è?”.
“Niente di male. Su “Repubblica” c’è un bellissimo articolo sulla nostra banca”.
Mandai a comprare il giornale. Capii che l’articolo in questione che narrava tutta la vicenda era un’iniziativa dell’avvocatessa Grassi. La chiamai al telefono e le dissi:
“Avvocato, lei mi ha fatto uno dei regali più belli che abbia mai ricevuto. Mi ricorderò sempre di lei”.
L’avvocatessa aveva voluto che si scrivesse un articolo di ringraziamento per quanto la Banca aveva fatto, ma scritto con sentimento e sincerità. Ho conservato il ritaglio del giornale. Lo tengo, per quanto possa sembrare un puro omaggio simbolico, fra le mie cose più care e fra i piccoli avvenimenti che ti riempiono la vita.