Io sono nato e poi sono sempre vissuto a Montelupo. Mio padre faceva il muratore. Mia madre, come la maggioranza delle donne del suo tempo, era “atta a casa”. Me la ricordo intelligente, dolce, apprensiva come tutte le mamme di marca devono essere. Per mio padre e mia madre fu una soddisfazione “farmi studiare”, come si diceva allora, in pratica farmi frequentare l’istituto tecnico commerciale di Prato. Dopo essermi diplomato entrai come amministratore, prima in una fabbrica di ceramica poi in un’altra ancora a Montelupo. Un bel giorno fui convocato a Firenze nella sede della Federazione Toscana delle Casse Rurali ed Artigiane. Mi aveva chiamato il ragionier Pietro Fabbri, un uomo poco più che sessantenne, quasi completamente calvo, dai modi schietti e diretti. Il Fabbri era allora il Direttore della Federazione e responsabile dell’Ente di Zona, l’organismo che controllava e assisteva il movimento delle piccole casse rurali.
Con il Fabbri ebbi un lungo colloquio che dovette risultare positivo perché, alla fine, mi fece la proposta di andare a lavorare alla Cassa Rurale di Asciano. La prospettiva non era molto seducente né tanto meno gratificante. Mi sarebbe stato pagato il viaggio di andata e ritorno in treno, avrei avuto vitto e alloggio gratuito, niente più. Più che un’offerta di lavoro, mi sembrava quasi una proposta di iscrizione ad una associazione di volontariato. Pensavo che anche a fare il servizio militare sarei stato meglio perché li, oltre alla branda e al rancio, mi avrebbero dato anche le sigarette “nazionali”. Ne parlai in famiglia. lo, per la verità, fino a quel momento avevo pensato pin alla libera professione che ad un impiego dipendente. Sapevo anche che, soprattutto allora, le piccole casse rurali potevano sì, avere successo, ma spesso potevano anche morire alla svelta di mortalità infantile. Ma per mio padre e mia madre la parola “banca” aveva un effetto magico. Per loro, Banca d’Italia e Cassa Rurale di Asciano erano la stessa cosa. Sempre di banca si trattava e di un impiego che, per loro che avevano dovuto sgobbare per tutta la vita senza certezze, era sicuro e forse anche redditizio.
Fu così che accettai l’offerta anche se mi sentivo più un missionario che un bancario. Partivo tutti i lunedì da Montelupo con quei treni a vapore che allora per Empoli, Castelfiorentino, Poggibonsi, Siena, Castelnuovo Berardenga impiegavano circa tre ore per arrivare ad Asciano.
Lì restavo tutta la settimana in un alberghetto che dava sulla via principale vicino al Municipio. Il venerdì sera tornavo a casa con il solito treno che sbuffava lento attraverso il paesaggio brullo e le stazioncine delle crete senesi, così piccole, da sembrare caselli.
Ad Asciano trovai ad attendermi il geometra Eolo Granci che alternava il suo lavoro in banca la mattina con la libera professione di progettista di case il pomeriggio. Il paese aveva allora una vita economica piuttosto sonnolenta fatta soprattutto di agricoltura, di qualche fornace di mattoni e di qualche mobilificio. Comunque ad Asciano imparai a capire come funzionava una piccola banca; in pochi mesi dovetti affrontare i rapporti con gli amministratori, il contatto con la clientela e perfino una ispezione della Banca d’Italia che evidentemente non aveva altro di meglio da fare.
Finalmente un bel giorno il solito ragionier Fabbri mi chiamò di nuovo a Firenze e mi propose di andare a dirigere la Cassa Rurale di Cambiano.
“Guarda – mi disse il Fabbri senza tanti preamboli – lì sarai l’unico impiegato, avrai sulle tue spalle tutta intera la responsabilità della più vecchia istituzione di credito cooperativo d’Italia. Per la verità la Cassa Rurale ed Artigiana di Cambiano è quella che all’interno della Federazione oggi ci dà le maggiori preoccupazioni”.
Qualche volta la giovinezza e l’incoscienza aiutano quando la ragione ci porterebbe ad altre conclusioni.
Accettai l’incarico con entusiasmo. Nell’eccitazione del momento mi dimenticai anche di parlare del compenso che avrei avuto. Il fatto di avere per intero la responsabilità di una banca che ad un altro forse avrebbe fatto paura, aveva fatto scattare la mia passione per le sfide difficili. Ero giovane. Quasi come un alpinista ero sempre risucchiato dalle situazioni ad alto rischio. Mi piaceva combattere e soprattutto sapevo che ogni scommessa impegnativa è l’unica che ti mette direttamente a quattr’occhi di fronte alla vita e misura in concreto e senza pietà quello che puoi valere.
Era il 15 luglio 1961 quando mi recai per la prima volta a Cambiano.
Erano gli anni del cosiddetto miracolo economico. Una briciola di quell’incipiente benessere era arrivata anche nella mia famiglia con l’acquisto di una Vespa, il motoscooter che allora mise per la prima volta due ruote sotto i piedi di gran parte degli italiani senza allontanarti troppo da terra.
Inforcai la Vespa e mi diressi verso Cambiano, una borgata che a quel tempo non sapevo bene nemmeno dove fosse. Impiegai più di un ora a raggiungerla. Mentre percorrevo la strada romana accompagnato dal crepitio del piccolo motore a tutto gas, mi ricordavo della bella e linda sede che avevo lasciato in quel d’Asciano. Ne immaginavo una simile anche a Cambiano, magari ancora più bella visto il bacino di utenza della nuova Banca: una scrivania tutta per me, una calcolatrice elettrica dell’ultimo tipo, il telefono personale come aveva il suddetto geometra Eolo Granci di Asciano.
La realtà che trovai fu esattamente l’opposto. C’era solo una stanzetta con le pareti affrescate da grandi macchie di umido e con la muffa che dal pavimento s’arrampicava verso il soffitto, diffondendo un odore aspro di salnitro, dentro il caldo asfissiante dell’ambiente. Quanto al telefono, il più vicino era al posto pubblico presso la bottega di generi alimentari dei Malatesti, in una cabina incassata fra la pastiera e i vasetti di marmellata.
Nella stanza della Banca c’era un giovane di ventitre-ventiquattro anni, basso e tarchiato, con un ciuffo di capelli castani. Con l’aria del magazziniere annoiato mi si presentò come un certo Giunti e, senza tanti convenevoli, prontamente esclamò:
“Meno male che sei arrivato, io non vedo l’ora di tornare a Firenze”. Tanta fretta di scappare, nonostante l’ambiente, mi insospettì. Ebbi l’impressione che qualcosa non quadrasse anche nelle carte oltre che sui muri. Con decisione invitai il disertore a non fuggire finché non si fosse effettuato assieme un completo inventario delle attività e delle passività. Le operazioni compiute dalla Banca si potevano contare sulle dita di pochi uomini. Tuttavia la babele era tale che le operazioni di controllo richiesero due giorni perché non si riusciva a districare la matassa. Ricordo solo che le cambiali finanziarie non venivano regolarmente rinnovate alla scadenza, ma ei si sbrigava con una annotazione a lapis sulla vecchia cambiale.
Il mio ingresso come ragioniere nella Cassa di Cambiano fu sancito con una riunione straordinaria del Consiglio di Amministrazione al quale, per solennizzare l’avvenimento, volle partecipare anche il ragionier Fabbri che continuava a pedinare l’inizio della mia carriera. Fu in quella occasione che conobbi il presidente della Banca, Armando Cerbioni. Era un uomo alto, quasi imponente, leggermente curvo, asciutto nell’aspetto e nei modi, con una rude familiarità che comunicava rispetto e confidenza.
A Castelfiorentino, dove allora ad ogni nome si accompagnava quasi sempre un soprannome, lo chiamavano “cipressino” ad indicare la sua alta persona appena inclinata con la testa e il fare austero e misurato.
Appena furono finite le presentazioni e i convenevoli, il Cerbioni mi disse con quella franchezza che poi mi doveva diventare consueta: “Caro ragioniere, non le possiamo dare che quarantaduemilalire al mese, ma senza segnarle sul libro paga, perché per ora la Banca non può permettersi un impiegato. Sta a lei fare in modo che la situazione diventi favorevole e ci si possa permettere anche di assumerla”.