Cominciò così il nostro lavoro a Castelfiorentino, con la nostra postazione al centro del paese davanti al piazzale, dove il giorno le mamme prendevano il sole sulle panchine mentre guardavano i bambini giocare con la ghiaia, e la sera gli uomini giravano e rigiravano sul percorso ovale che circondava il giardino, chiacchierando del più e del meno. Eravamo finalmente in vetrina anche noi.
Nella Banca lavoravamo ancora in due. Io mi occupano dell’organizzazione, dello sviluppo e dei fidi. Con le ampie deleghe”non scritte” ricevute dal Consiglio di Amministrazione, seguivo essenzialmente la ricerca della nuova clientela, istruivo le pratiche di fido, valutano l’affidabilità creditizia, stabilivo i tassi attivi e passivi. Chiuso nella mia stanzetta mi sentivo come il confessore che ascoltava i piccoli e i grandi problemi di tutti e cercavo di risolverli incoraggiando ad andare avanti. Il Lami invece officiava nel primo piano allo sportello. Ottimo e attento collaboratore gestiva le operazioni con cordialità e premuta facendo in modo che i clienti acquistassero sempre pin fiducia.
Le altre banche, anche quelle di notevoli dimensioni, conducevano una concorrenza anche sleale, senza disdegnare i colpi bassi sotto la cintola, suggerendo ai clienti di non portare i soldi alla “banchina” “perché non si sapeva se erano sicuri di ritrovarceli”. Ma queste manovre erano ormai cazzotti nell’acqua. La Banca continuava a crescere. Proprio allora, per far fronte al lavoro crescente, furono assunti due nuovi impiegati: Spinelli Piero e Iacopozzi Franco. Lo Spinelli Piero è ora Direttore Generale del Credito Cooperativo di Sovicille. Lo Iacopozzi è ormai in pensione.
La nostra crescita avveniva comunque, per così dire, in direzione del sottobosco dell’economia castellana. Servivamo i piccoli e i piccolissimi artigiani. Le grandi aziende erano meglio assistite dalle grandi banche soprattutto per le operazioni con l’estero.
Ma noi, seppure in forma sperimentale, avevamo già allora compreso il lato debole del sistema creditizio italiano che tendeva a fare credito solo sulla base di grosse garanzie immobiliari. In pratica si davano i soldi a chi era già ricco. Si teneva poco conto invece della imprenditorialità, cioè della capacità di creare reddito anche senza avere alle spalle grossi patrimoni. Questo sistema soffocava alle radici proprio le piante più piccole e promettenti che stavano crescendo. Strozzava sul nascere la proliferazione di nuove imprese. Restringeva l’espansione ulteriore del cosiddetto ceto medio. Di fatto bloccava la mobilità sociale propria di ogni economia veramente libera e contraddiceva il principio di pari opportunità che sta alla base di ogni società democratica.
Nel nostro piccolo, pur con tutte le cautele necessarie, noi cominciammo a premiare il merito oltre che le consistenze immobiliari degli affidati. Ricordo ancora l’incontro che ebbi con uno dei primi clienti di Castelfiorentino. Era un piccolo artigiano molto motivato a far crescere la propria azienda, ma trovava difficoltà a farla progredire perché non aveva proprietà immobiliari da offrire in garanzia e non trovava adeguato credito da parte del sistema bancario. “Mario – gli dissi – hai un mestiere promettente. La voglia di lavorare non ti manca, so che sei una persona onesta, questo è il tuo affidamento, mettilo a buon frutto!”
Lui rimase quasi sconvolto da questo linguaggio nuovo. Non lo aveva mai ascoltato davanti alle scrivente dei direttori delle altre banche: “Ma io non ho niente! Direttore, dice proprio sul serio?”.
Sì, io dicevo sul serio e mi comportai di conseguenza. Questo Mario è in seguito diventato socio della Banca e ha ricoperto anche importanti cariche all’interno dell’Istituto.
Così ci muovevamo nello scenario creditizio dei primi anni sessanta. Le nostre valutazioni si basavano prevalentemente sulle potenzialità di reddito e sulla conoscenza del cliente più che sulla sua consistenza patrimoniale. In questo periodo esplodevano tante piccole iniziative economiche. Nasceva quella che più tardi sarebbe stata chiamata la cosiddetta imprenditorialità diffusa.
A cose fatte, ma solo molto più tardi, quando ci si accorse, nel corso degli anni settanta, che questo sistema di piccole imprese era non solo capace di diffondere spirito di iniziativa e benessere, ma anche di superare le crisi più della grande impresa, anche chi non aveva fatto nulla perché questa fioritura di promesse potesse sbocciare, si mise a scrivere poesie in lode del “piccolo è bello”. Ma nel frattempo, almeno per quanto riguardava Castelfiorentino, eravamo stati noi ad accogliere le persone di estrazione contadina che ancora, quasi con la mota attaccata alle scarpe, si riversavano sul capoluogo dando vita a tante piccole o piccolissime attività economiche.
Il loro punto di riferimento era soprattutto la Cassa Rurale. Da noi queste persone non solo trovavano idonei affidamenti, per cui il merito creditizio era rispettato, ma ottenevano anche consulenza a tutto campo per le loro esigenze commerciali.
Lo sviluppo fu così rapido che anche il vestito nuovo che ci eravamo messi addosso, con la sede di piazza Gramsci, cominciò quasi subito ad andarci stretto.
Io, all’epoca, avevo ancora la piccola e gloriosa Fiat 500, che era stata il mio ronzino di battaglia in tante avventure, dal viaggio di nozze, alle visite alla Banca d’Italia e alla clientela. La piccola scatoletta di ferro e di plastica, mostrava ormai tutti gli acciacchi dell’età e della continua usura.
Un giorno andai da Guidino il meccanico (all’anagrafe Betti Guido), che quella sera, e non era certo l’unica, come Vulcano, il Dio patrono del suo mestiere, era arrabbiato con l’universo mondo, e giurava e spergiurava, come accadeva da quando aveva cominciato, di voler smettere il suo mestiere e dar via la sua bottega in via Piave. Fu quella sera, al capezzale della mia cinquecento moribonda, che nacque l’idea di acquistare la prima sede della Cassa Rurale di Cambiano, negli ex locali di un’officina meccanica. Con Guidino, che era di poche parole, ma furioso anche nei suoi propositi, l’affare fu concluso in quattro e quattr’otto.
Tuttavia, anche per acquistare un nuovo immobile funzionale alla nostra attività, erano necessarie le autorizzazioni della immancabile Banca d’Italia.
La legislazione bancaria di allora era più severa di quella di oggi in fatto di apertura di filiali e di acquisto di cespiti immobiliari, seppure strumentali alla attività. Nonostante la buona e continua crescita, sia economica che patrimoniale, la Cassa Rurale non disponeva di sufficienti mezzi per avere diritto all’investimento nell’acquisto del cespite e alla sua ristrutturazione.
Di nuovo ci fu bisogno di un’opera di lavoro ai fianchi della Banca d’Italia per potere realizzare l’investimento della nuova sede. Stavamo già lavorando alla ristrutturazione dei locali, quando all’improvviso, sopravvenne la catastrofe che doveva segnare a lungo la vita e la memoria della nostra zona.