Gli anni che vanno dal 1995 al 1999 sono gli anni della definitiva espansione della Banca di Cambiano sul territorio. In questi ultimi tre anni che ho passato alla Cambiano potei dedicare tutto il mio tempo all’attività della Banca. Nel 1996 mi ero anche laureato. Avevo concluso i miei studi universitari nella bellissima città di Urbino alla cui Università mi ero iscritto nel Giugno 1992. Conclusi quella piacevole fatica con una tesi su un argomento per me molto interessante ed a quel tempo anche molto discusso nell’ambito giuridico economico circa la sua liceità, vale a dire “il contratto di sale and lease back” (in pratica la locazione finanziaria di ritorno).
Dopo il famoso decreto legislativo del 1993 che liberalizzava l’apertura degli sportelli bancari era molto più facile per la nostra Banca di Credito Cooperativo, come del resto per le altre banche, aprire nuove filiali nell’ambito del territorio di competenza.
Quel decreto divenne completamente operante dopo la normativa della Banca d’Italia di due anni dopo. Però non potevamo procedere a caso né semplicemente a macchia d’olio. Era necessario aprire filiali su piazze che fossero congeniali alla presenza della Banca sia per tessuto sociale, sia per cultura imprenditoriale, sia per la vicinanza alla sede centrale.
Prima di procedere ad ogni nuovo insediamento dovemmo quindi elaborare dei piani strategici di sviluppo biennali e triennali. Questi progetti vennero accuratamente predisposti, in questo caso, con la piena collaborazione del gruppo Cabel, e della C.O.M.O. società geneticamente appartenente alla Banca.
A tappe forzate continuò in quegli anni la nostra espansione nella Valdelsa e nel Valdarno empolese.
Guardandomi indietro e intorno mi sentivo felice. Da Poggibonsi fino a Fucecchio ormai in ogni paese la Banca di Cambiano era come la Chiesa: piccola o grande non mancava mai. Con le sue sedi nuovissime o con quelle ristrutturate nei vari piccoli centri storici si aggiungeva dovunque ai segni architettonici del paesaggio urbano. In un certo senso diventava un marchio D.O.C., un prodotto tipico della zona.
Via via che si aprivano i nostri presidi, la banca metteva subito radici e cresceva come una pianta che fosse stata studiata per essere inserita nel suo ambiente naturale. La nostra ricetta era in fondo sempre la stessa: metodi operativi di estrema semplicità, riduzioni al minimo indispensabile delle incombenze burocratiche, competenza e professionalità dei responsabili di filiale, sostegno e incentivazione da parte della direzione generale.
Avevo una specie di motto che era questo: coloro che si sentivano all’altezza per assumere la responsabilità di una filiale o per fungere da aiuto dovevano essere distribuiti nei vari punti operativi. Come nell’esercito di Napoleone ogni soldato doveva sentire di avere nel suo zaino il bastone di maresciallo. Se era capace, anche se giovane, doveva assumere funzioni direttive. Per me, la faccia del direttore, in cui il cliente si riconosce, era più importante della facciata della sede. Era l’immagine della banca in cui la gente ha bisogno di riconoscersi, di vedersi rappresentata e protetta per non affidare i propri soldi e i propri bisogni ad una fredda astrazione fatta di vetri e di marmi. Questa distribuzione dei migliori nei posti di frontiera mi richiedeva un notevole sforzo personale perché dovevo sobbarcarmi un grande lavoro della sede centrale. A mia disposizione rimanevano per lo più giovani che avevano bisogno di formazione, di una specie di corso di addestramento reclute come si diceva una volta nell’esercito. Ma tutti sapevano che quanto più erano disposti a imparare i ferri del mestiere, tanto più io ero disposto ad aiutarli. Il reclutamento rapido della Banca aveva fatto in breve tempo di me un veterano anche se io non mi sentivo vecchio.
Alcuni, fra cui lo stesso Viviani, mi facevano presente che era più opportuno rafforzare la sede di personale esperto per esercitare un maggior controllo sulle agenzie.
“Sì, – aggiungevo io – hai ragione, ma prima cerchiamo di consolidare la struttura delle filiali e poi pensiamo al controllo”.
Viviani non conosceva quanto me quelli che io chiamavo “i miei ragazzi”. Non aveva potuto misurare per contatto diretto la loro onestà e la loro professionalità, che io avevo visto crescere sotto i miei occhi. Ancora oggi se c’è qualcosa che mi rimane in mente della mia banca è il capitale umano accumulato, e non come un’espressione e come un numero, ma come tante facce familiari e distinte, che io conservo nell’archivio della mia memoria. É come una fotografia di scuola che non sbiadisce con tanti volti l’uno accanto all’altro. Perfino con tante voci che spesso, quando torno indietro nel tempo, sento ancora riecheggiare sempre con un brivido di commozione che mi corre per le ossa.
DALLA VALDELSA AL VALDARNO