Tutti, in quegli anni, si meravigliavano del veloce e costante sviluppo della Banca di Cambiano. Tutti: le banche concorrenti, le stesse consorelle si domandavano le ragioni di un così impressionante successo.
Ora che sono in una fase riflessiva, di bilancio del mio lavoro e della mia carriera quarantennale, posso cercare di dare una spiegazione, oltre che un rendiconto, di ciò che ho fatto. Le banche sono in fondo una comune impresa che per la loro crescita ha bisogno di tre fondamentali risorse: le risorse finanziarie,le risorse informatiche, le risorse umane.
Quale di queste è la più importante? Qual è il vero plusvalore che fa la differenza determinante fra un’impresa e un’altra? Alcuni sostengono il fattore finanziario, altri quello informatico,altri ancora quello umano. lo, secondo la mia esperienza, appartengo, per così dire, a quest’ultima scuola di pensiero.
Per quanto importanti, non sono certo i sistemi informatici e tecnologici che fanno la differenza. Come diceva Edward Ester “Un computer non farà diventare bravo un dirigente incapace. Esso renderà un buon manager più veloce nel modo migliore e un manager cattivo più veloce nel modo peggiore”.
Sono invece le risorse umane quelle che fanno la fortuna o la sfortuna di una impresa. É la qualità degli uomini che ci lavorano che la possono fare grande o piccola. Il fattore umano è l’ingrediente essenziale ed esclusivo che fa la differenza decisiva rispetto alle imprese concorrenti. Questo principio è indiscutibile soprattutto nelle banche di oggi dove non è più necessario il ragioniere che somma e sottrae, ma il confidente che dà comprensione, fiducia, sicurezza e affidabilità.
Con orgoglio ora posso dire che ero riuscito a forgiare un personale invidiabile. In tutti vi era quel fondato vanto che li poteva far sperare di raggiungere maggiori livelli di responsabilità e di prestigio.
Durante il corso dell’anno venivano indette due riunioni alle quali partecipava tutto il personale dipendente. Una di queste assemblee era dedicata alla discussione del bilancio consuntivo. In queste occasioni, anziché essere messo in una posizione passiva e subalterna, ogni dipendente era vivamente sollecitato ad esprimere valutazioni e critiche costruttive sui sistemi operativi e di conduzione aziendale. Le loro proposte erano attentamente vagliate e, se ritenute valide, tenute in considerazione. I dipendenti non erano comparse, ma protagonisti consapevoli di partecipare ad un progetto comune che sentivano di elaborare tutti insieme.
Con maggiore periodicità venivano promosse le riunioni che riguardavano i dirigenti. Anche lì ognuno portava il proprio contributo e venivano prese le decisioni più importanti. Pure in queste sedi non ho mai esercitato pressioni sulla base di un principio di autorità tipo “Io decido così e basta”. Ascoltavo con interesse le opinioni dei colleghi. Quando non mi sembravano giuste le confutavo, appellandomi ad argomentazioni e non alla autorità. Poi tutti insieme sceglievamo le decisioni che emergevano dal confronto.
Proprio perché ritenevo giusto che i dipendenti sentissero la Banca come una cosa propria, insistevo per dare la possibilità a tutti quelli che lavoravano nell’azienda di diventare soci qualora lo avessero desiderato. In fondo che cosa era questa possibilità se non una applicazione di fatto e non solo di nome del principio cooperativistico? Che cosa era, anche se nel nostro piccolo, se non l’attuazione delle vecchie aspirazioni di stampo cattolico e socialista all’azionariato popolare e alla partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa? Questa spinta a che i dipendenti diventassero anche soci della Banca cozzava decisamente invece con le idee dell’amico Viviani. Il Presidente della Cabel e Presidente del Collegio Sindacale della Cambiano voleva impedire la partecipazione dei dipendenti alla società. Anche il presidente Mario Cappelli, all’inizio piuttosto incerto su questa apertura, col tempo finì per schierarsi completamente e ostinatamente sulle posizioni del Viviani. Per questo motivo il Presidente Cappelli pretendeva che le richieste di ammissione a socio dei dipendenti non giungessero nemmeno nel Consiglio di Amministrazione, che per statuto era l’unico organo deputato ad accogliere o a respingere le domande di ammissione alla società. Su questo punto il Cappelli divenne col tempo sempre più intransigente tanto che ripetutamente in questo periodo cominciò ad usare la minaccia delle sue dimissioni. Dire “Mi dimetto” divenne la sua arma preferita tutte le volte che voleva spuntarla sul Consiglio di Amministrazione, arma per la verità che apparve ben presto a tutti spuntata e arrugginita.
Le dimissioni infatti, tante volte promesse a parole, non arrivarono mai sul tavolo del consiglio, nero su bianco, scritte formalmente su un bel foglio di carta formato trenta per venti come si usa.
Se su questo punto trovai forti resistenze, molto più facile mi fu organizzare la erogazione del credito attraverso un procedimento che io volevo estremamente semplice e tempestivo per poter rispondere in tempi ridottissimi alle esigenze della clientela. Riuscii su questo piano a decentrare al massimo l’avvio delle pratiche e in buona parte anche le decisioni relative, pur conservando un controllo centrale sull’operato delle varie filiali.
Il Consiglio di Amministrazione aveva concesso ampie deleghe al Comitato esecutivo, al direttore generale, e ai responsabili delle filiali con competenze decrescenti, in base all’entità del credito da concedere. Al Consiglio di Amministrazione erano attribuite le decisioni quando si trattava di prestiti di rilevante entità. Per linee di credito di media portata la decisione spettava al Comitato Esecutivo o al Direttore Generale. Per le linee di credito di modesta entità, 1’approvazione era lasciata autonomamente ai direttori delle filiali. Tuttavia anche questi ultimi dovevano nell’arco della giornata essere presentati all’ufficio fidi della direzione generale. In ogni caso ogni pratica, anche se di modesta rilevanza, era sempre a conoscenza sia dell’organo proponente sia dell’organo deliberante. Questo meccanismo ha risposto al bisogno di sollecitudine della clientela e alla necessità di vigilanza e di monitoraggio da parte dell’azienda.
I SEGRETI DEL SUCCESSO