Un giorno dell’estate del 1998 mi recai a Empoli nella sede della Cabel Leasing per definire una complessa istruttoria di leasing con lo Schiavetti allora responsabile della società. Definiti i dettagli dell’operazione, il Viviani mi pregò di passare dal suo ufficio per comunicarmi una propria iniziativa. Mi informò che la Cabel Holding era in procinto di acquistare una piccola Banca con sede a Roma, la Invest Banca. La Banca in questione non aveva a quel momento nessuna rete di sportelli per operare come una banca ordinaria. Le risorse umane su cui poteva contare erano molto scarse. Anche il suo patrimonio era piuttosto limitato se voleva operare come Banca. Aveva infatti un capitale sociale di appena quindici miliardi.
Mi fu detto che la Cabel Holding non poteva comunque acquisire da sola la proprietà di questa banca. Perciò aveva cercato e ottenuto l’aiuto di una Compagnia di Assicurazione che ne avrebbe rilevata una quota di minoranza e di alcune piccole banche popolari sotto il controllo diretto o indiretto della Cabel e infine di altri soggetti privati.
Il Viviani, infine venendo al sodo, mi disse che per l’acquisto aveva bisogno anche del contributo delle Banche di credito cooperativo del gruppo.
Lo stetti ad ascoltare con molta attenzione e alla fine gli chiesi: “Scusa Paolo, ma al gruppo a cosa serve questa banca?”. Questi mi rispose in modo molto vago e generico. Mi fece capire che questa banca era in fondo una Merchant Bank, ossia una banca di affari. Per dirla in maniera più semplice era una di quelle banche che hanno come principale attività quella di effettuare investimenti in aziende non quotate in borsa attraverso l’acquisto di quote di minoranza senza alcuna partecipazione alla responsabilità imprenditoriale. Mi parve insomma di capire che questo minuscolo istituto avrebbe dovuto avere l’ambizione, nelle intenzioni di Viviani, di diventare una Mediobanca in miniatura.
Feci presente a1l’amico che Empoli non era Milano, e che per diventarlo aveva bisogno di qualche milione di abitanti e di qualche decina di migliaia di imprese in più. Non vedevo insomma una prospettiva in loco per questa tipologia di banca.
Comunque capii che qualsiasi mio tentativo di dissuasione sarebbe stato inutile. Forse anche ingiusto visto che era lui il presidente della Cabel Holding e a lui spettavano le decisioni anche se, a mio avviso, discutibili.
Cercai invece per quanto mi riguardava, di capire quale sarebbe stato il contributo che la Cambiano doveva dare per l’acquisto della banca.
“Circa 900 milioni” mi disse il Viviani.
“D’accordo – risposi – non ci sono problemi”. In fondo per il patrimonio della Cambiano, era come togliere un pelo dalla criniera di un cavallo.
Il Presidente della Cabel Holding aggiunse però che la Cambiano, come le sue consorelle, non avrebbe potuto versare i 900 milioni finché la Banca d’Ita1ia non avesse autorizzato l’acquisto. Era quindi opportuno che, in attesa del disco verde da parte del massimo istituto di controllo del credito, i dirigenti delle banche consorelle anticipassero di tasca propria almeno novanta milioni, che poi sarebbero stati loro rimborsati una volta ottenuta l’autorizzazione della banca centrale. “Va bene – aggiunsi io per dimostrare che le mie perplessità
non derivavano da interessi personali – non ci sono problemi, a chi devo consegnare l’assegno?”.
“A Francesco Bosio – rispose Viviani – è lui che insieme a me si occupa dei dettagli dell’operazione”.
Lo salutai e tornai a Castelfiorentino. Durante il tragitto rimuginavo al solito dentro di me. In fondo ero contento di aver dato ancora una volta una mano all’amico. Tuttavia non ero convinto dell’operazione che mi aveva descritto.
“Forse non sta tutta lì – pensavo scuotendo la testa – forse per la prima volta mi nasconde qualcosa. Una banca d’affari? Con quindici miliardi di capitale è come entrare al supermercato con 5000 lire in tasca e prendere il carrello. Una banca di quel tipo che volesse operare a tutto campo doveva disporre di una maggiore capitalizzazione, inoltre la Invest Banca aveva chiuso gli ultimi due esercizi in perdita. Sarebbe stato necessario ricapitalizzarla di almeno tre volte. E chi avrebbe portato somme simili? Non certo la Cambiano. Le banche del gruppo poi non avevano certo tali disponibilità. E chi allora? Forse qualche imprenditore privato? Forse qualche finanziere? Forse
qualche Compagnia di Assicurazione? Come avrebbe potuto operare una banca simile nel nostro territorio? Forse sarebbe nata una nuova banca non operante con i privati, se non per particolari operazioni, ma avrebbe agito solo con le banche del gruppo, rischiando di ridurre esse a strumenti di distribuzione di prodotti bancari s tandar diz z ati, diminuendo ne cre ativ ità e autonomi a”. Come potevo saperne di più e di più vero? Dal Presidente Cappelli? Dai responsabili delle Banche consorelle?
Decisi di attendere che a qualcuno sfuggisse qualche indiscrezione. Un bel giorno fu lo stesso Francesco Bosio che, forse non volendo, si lasciò sfuggire le prime confidenze più dettagliate. Eravamo nel mio ufficio a parlare e l’argomento cadde, quasi per caso, sul grande convitato di pietra: la Invest Banca. Il mio Vice raccontò che alcuni suoi amici privati si erano fatti avanti anche con scopi speculativi perché pensavano che in breve tempo, anche dopo quattro o cinque anni, il valore delle azioni della Invest Banca sarebbe addirittura decuplicato.
Io sobbalzai sulla sedia “Francesco, vuoi scherzare? Si tratta di una modesta Merchant Bank, cosa vuoi che combini in cinque anni in una zona di provincia come la nostra?”.
“Macché Merchant Bank” – sbottò il Bosio finalmente fuori dai denti – “la Invest Banca dovrà essere ricapitalizzata fino a raggiungere un capitale sociale di almeno cinquanta miliardi; dovrà essere una banca che tiene rapporti con tutte le banche del gruppo, specialmente per quanto riguarda le operazioni più sofisticate come l’estero, la finanza, il leasing. La Cabel Leasing e la Cabel SIM si fonderanno con la Invest Banca (allo stato attuale ci fa dovere di segnalare che una di queste operazioni è gia stata effettuata) e con il loro ingresso daranno il via al primo aumento del suo capitale sociale: ci sono inoltre in corso contatti con alcune compagnie di assicurazioni. Infine vedrai che anche le Banche del gruppo faranno la loro parte”. Ero attentissimo come il poliziotto che si trova davanti a chi finalmente si mette a “cantare”. Pensavo di aver preso per la coda un tonno e invece vedevo uscire dall’acqua uno squalo.
“In che maniera – incalzai – interverranno le banche del gruppo?”. “Intanto rendendosi disponibili ad acquistare ulteriori quote del capitale della Invest Banca, successivamente a dare il loro knowhow, insomma le loro conoscenze e le loro tecniche alla Invest”.
Stavo ad ascoltare con gli occhi spalancati come una persiana di mattina: non lo volli interrompere. Volevo saperne il più possibile e lo stu zzicavo a tirar fuori tutta la farina dal sacco. “Ho capito, Francesco – aggiunsi – ma anche se la nostra Banca decidesse di intervenire con i propri capitali, c’è un limite imposto dalle norme della Banca d’Italia. Possiamo dare, se ricordo bene, due miliardi e mezzo, al massimo cinque miliardi. Sono ancora molto pochi e insufficienti per far operare a pieno regime una banca. Per la In est Banca occorrerebbero almeno cinquanta miliardi”. “Non ti preoccupate Beppe – rispose un Bosio sempre più gasato
da un sorprendente e oscuro ottimismo – troveremo altri sistemi”. “Invece io mi preoccupo” ribattei.
Intervenne allora il Simoncini con un candore che gli toglieva almeno trenta anni di quelli che aveva e gli dava la spensieratezza di un bambino: “Ma, Direttore, non mi sembra il caso di preoccuparsi. Io, mentre Francesco parlava, ho fatto un po’ di conti. Nessuna norma ci vieta di far acquistare le quote della Invest Banca ai nostri soci. Sono circa duemila. E’ sufficiente per esempio, che ognuno di loro versi dieci milioni e riusciamo a raccattare venti miliardi di capitale per la Invest”.
Capii che il bravo Simoncini, come spesso accadeva, si lasciava prendere da un grande entusiasmo per ogni progetto e ci si tuffava dentro sublto senza nemmeno contare fino a tre.
Io cercai di rimetterlo con i piedi per terra: “Ma ti rendi conto, Giuliano, di quello che stai dicendo? Lo so anch’io che i nostri soci hanno tanta fiducia in noi. Se noi proponiamo loro le azioni della Invest Banca è vero che probabilmente tutti le compreranno. Ma i nostri clienti vogliono anche che il loro capitale sia remunerato e vogliono, quanto meno, sicurezza sulle somme investite: queste sono azioni non quotate, di una Banca che se tutto va bene, daranno i loro frutti fra non meno di dieci anni e se qualcosa gira storto non prenderanno fra dieci anni neppure quello che hanno versato, forse neppure la metà”.
“Ma sì tratta dì dieci milioni – insistette il Simoncini – non sarebbe poi né un grosso rischio, né una grossa perdita”. “Già – risposi – ma fra i nostri soci ci sono anche non poche persone per le quali dieci milioni non sono noccioline”. Cercai a questo punto di non insistere nella discussione. Mi rendevo conto che il Simoncini era in buona fede. L’eloquenza di Bosio l’aveva trascinato fra le nuvole come un aquilone che aveva perso il contatto con il mondo.
Capii comunque che i miei sospetti erano fondati. L’operazione era molto più grossa di come il Viviani me l’aveva descritta. Per la prima volta mi aveva nascosto qualcosa. Evidentemente dal Viviani ero ormai considerato come un personaggio infido. I progetti dovevano passare non sulla mia testa, ma addirittura alle mie spalle. Cominciai allora ad avvertire il senso dell’accerchiamento e ad assaggiare dopo tanti anni il gusto acido della quasi solitudine. Mi sembrava che già da allora qualcuno ormai mi considerasse non come una cellula, ma come un virus estraneo e pericoloso dell’organismo che avevo cresciuto.
Non sapevo nemmeno con chi parlare per trovare confidenti ed alleati sicuri. Mi sembrava ormai di giocare quasi una partita da servizi segreti, non sapendo più di chi fidarmi e con chi confidarmi. Poco tempo prima avevo manifestato al collega Mauro Benigni, direttore generale della Banca di Credito Cooperativo di Fornacette, la mia non piena condivisione dei progetti Cabel. In modo molto pacato e rispondendo solo ai dubbi della mia coscienza dissi al collega che non vedevo la necessità della ricerca di banche da comprare. Ritenevo invece che fosse necessaria semmai una maggiore attenzione all’ammodernamento dei sistemi informatici che stavano ormai diventando vecchi e avevano necessità di essere rinnovati. Ritornai sul bisogno di potenziare la società di leasing provvedendo al parziale aumento di capitale sociale o, quanto meno, ad una sua ricapitalizzazione interna. Per questa ultima operazione sarebbe stato sufficiente che le Banche socie che proponevano operazioni di leasing si fossero accontentate di interessi e di provvigioni contenute entro la norma.
Queste mie preoccupazioni che cercavano onestamente un confidente, e un amico, che poteva attenuare le divergenze nel comune interesse delle società del gruppo, furono invece volutamente equivocate ed ebbero l’effetto opposto.