Il compenso che mi era stato offerto era inferiore a quello di un operaio di allora. Ero in una posizione ibrida con una remunerazione di gran lunga inferiore alla media se mi considerano come un libero professionista, e senza copertura assicurativa e previdenziale, se mi immaginavo come un lavoratore dipendente. Come il pipistrello non sapevo se ero topo o uccello, non avevo il buco sicuro del primo né lo spazio libero del secondo.
Tuttavia accettai lo stesso. Ero stato contagiato dalla schiettezza e dalla fierezza di un uomo non più giovane come il Cerbioni, ma pieno di energia, onestà, buona volontà. Il mio spirito naturale di intraprendenza era stato di nuovo tentato e caricato. Inoltre ero stato gratificato dall’appoggio leale e fiducioso di tutti i componenti del Consiglio di Amministrazione. Cominciò così la mia nuova avventura. Dovevo rimettere in mare e fare riprendere il largo ad una barca che, da una prima ricognizione delle falle, rischiava di naufragare. Il conto della Banca che era stata messa nelle mie mani era presto fatto. Il patrimonio era di 1.755.605 lire, gli impieghi di 65.863.170 lire e la raccolta di appena 46.920.665 lire. Il defunto Raffaele Mattioli, a lungo Presidente della Banca Commerciale Italiana, che era anche un fine letterato, diceva scherzando che “fra i bilanci e la poesia ci sono parecchie parentele perchè spesso sono entrambi opere di fantasia”.
Anche per fare quadrare il bilancio della Banca di Cambiano ci voleva allora molta inventiva e immaginazione.
L’utile di esercizio della Banca nel primo anno in cui io vi entrai fu di circa 750.000 lire. Nonostante il povero compenso che mi veniva dato provai quasi rimorso a pensare che la mia sola remunerazione si mangiava addirittura una fetta grande quanto i due terzi dell’utile netto di esercizio.
I depositanti della Cassa erano in tutto cinquanta, tutti di Cambiano. C’erano anche diciotto correntisti. Questi, per così dire, venivano anche dall’estero, cioè dai paesi vicini. Venivano alla Cassa di Cambiano per fare lì quello che non potevano fare in altre banche. In pratica usavano la Cassa Rurale per alimentare le proprie disponibilità con il sistema del “giro di assegni”. Mi resi subito conto che era necessario allontanare questi personaggi, ma era necessario farlo con la massima cautela perché, se qualcosa fosse andato storto, si rischiava la liquidazione della Banca. Tutti i santi giorni raccoglievo e registravo operazioni a mano.
Alla fine della mattina, prima dell’una, dovevo andare alle filiali delle banche di Castelfiorentino per effettuare i compensi. Di fatto ero poco più di un fattorino. Facevo il viottolo al Monte dei Paschi, alla Cassa di Risparmio di Firenze, alla Banca Toscana perché lì la Cassa di Cambiano aveva i conti. Assegni, tratte, cambiali venivano domiciliati presso questi istituti a cui si doveva fare riferimento. Questi potevano indirettamente interferire.
Un giorno un cassiere di una di queste banche mi apostrofò ad alta voce nel bel mezzo del salone gremito di gente: “O morettino della Cambiano, o non siete ancora falliti?”. Io risposi per le rime, ma l’umiliazione rimase e me la portai a casa.
Ero stato assunto da appena due settimane quando il 1 Agosto 1961 arrivò un ispettore della Banca d’Italia, un uomo sui quarantacinque anni, con tanto di giacca e cravatta nonostante il caldo canicolare. Appena il funzionario ebbe spulciato un po’ di conti cominciò a inveire. Se la prese con me con fare aggressivo come se la causa della penosa situazione economica della Banca fosse una mia colpa. Senza tanti complimenti sentenziò infine che la situazione era così grave da richiedere un provvedimento gravissimo di amministrazione controllata, con il conseguente scioglimento degli organi sociali e la nomina di un commissario.
In poco più di quindici giorni avevo accumulato delusioni e umiliazioni. Ora era il momento di reagire. Piantandogli gli occhi in faccia mi rivolsi bruscamente all’ispettore:
“Tenga le chiavi! Queste sono della cassaforte e queste sono le chiavi della stanza! Faccia quello che vuole. Io me ne vado. Sono qui da quindici giorni, non sono nemmeno assicurato, mi son fatto un mazzo così per rimettere in sesto questa baracca; figuriamoci se ora voglio essere io a pagarne lo scotto”.
Mi diressi deciso verso la porta, stavo per uscire quando sentii dietro di me un “ascolti” molto pacato. L’ispettore aveva cambiato modi e propositi, esortandomi a rimanere. Nelle due settimane successive diventammo quasi amici e imparammo a stimarci a vicenda. Buttammo giù assieme un piano di azione realistico e l’ispettore mi concesse un anno di tempo per realizzare il risanamento dell’azienda. Le direttive concordate erano soprattutto quelle di eliminare i conti correnti con giro di assegni, di sistemare il contenzioso con l’azienda Laterizi Praticelli (ora C.O.L.C.) e di riequilibrare lo scompenso delle poste patrimoniali fra raccolta e impieghi.
Nel giro di pochi mesi riuscii a raddrizzare la situazione. I conti correnti incriminati furono chiusi. Lentamente furono riallineate le poste attive e passive grazie sopratutto alla crescente fiducia della gente di Cambiano che aumentò i depositi. Operazione questa impossibile se l’ispettore avesse chiesto e ottenuto il commissariamento della Banca, così come aveva inizialmente prospettato. Infine fu affrontata la questione Praticelli che da sola costituiva quasi un terzo degli affidamenti della cassa. La fornace era in amministrazione controllata. Era quindi improponibile un rientro immediato dell’esposizione. Ma su questo punto l’ispettore si era dimostrato inflessibile ed aveva pure ragione. Insieme al Presidente Cerbioni dovetti affrontare la situazione di petto. Chiamammo l’allora dirigente dell’azienda Falorni Marcello, detto Marcellino, per la sua bassa statura e per la vivacità del suo carattere, mettendogli sotto gli occhi la gravità della situazione, per cui dopo la Praticelli anche la Cassa Rurale rischiava di essere trascinata in amministrazione controllata. Il Falomi si prodigò per risolvere la situazione. Chiamò a raccolta i soci più significativi della società e nel giro di poche settimane il debito fu frazionato fra i soci. I soci ne rispondevano personalmente verso la Cassa Rurale.