Così fu fatto. Tuttavia, nonostante il compromesso raggiunto, la risposta della Banca d’Italia alla nuova domanda tardava ad arrivare. Eravamo ormai giunti all’estate del 1963 ed io continuavo a bussare ripetutamente alle porte della sede della Banca d’Italia di Firenze per ottenere una risposta.
Nel frattempo la Cassa cresceva rapidamente. Dal momento della mia assunzione i depositi erano passati da 62 a 120 milioni e gli impieghi erano aumentati da 65 a 80 milioni. Nel maggio del 1963 il Cerbioni, ormai anziano, aveva lasciato la Presidenza pur restando consigliere. Era stato sostituito dal professore Mario Lensi che purtroppo mori, pochi mesi dopo, nel novembre dello stesso anno. Aveva, mi pare, quando mori 59 anni. La presidenza fu allora assunta dal Vice-Presidente Amelio Conforti a cui doveva succedere il perito agrario Mario Cappelli.
Nel frattempo la Banca aveva assunto un altro impiegato. Assunto si fa per dire, perché forse sarebbe meglio parlare di un qualcosa di mezzo fra un semivolontario e un tirocinante. Un sabato sera, mentre mi prendevo il solito caffè nel solito bar di Montelupo, incontrai il Lami Guido, una mia vecchia conoscenza. Il Lami mi disse che suo fratello minore si era da poco diplomato ragioniere e cercava disperatamente un lavoro. lo gli dissi che potevo fare ben poco, viste le dimensioni della banca in cui lavoravo e la precarietà in cui io stesso, pur essendo solo, mi trovavo. Ma il Lami insistette. Disse che suo fratello sarebbe stato disposto anche a lavorare gratis. L’importante era che facesse esperienza. Così il povero Lami Giovanni fu assunto alle condizioni grosso modo di un extracomunitario di oggi, proprio gratis no, ma “amore Dei” sì. Prendeva tredicimila lire al mese senza assicurazione; ottomila lire offerte dalla banca e cinquemila dal sottoscritto di tasca propria, viaggio offerto dal sedile posteriore della mia vespina, mangiare a sacco come i boy-scout.
Fu così che fu assunto il Lami Giovanni, un ragazzo d’oro, tacitumo e serio, devoto e attento, con gli occhi obliqui e sporgenti di un budda tibetano, gran lavoratore ora in pensione.
Era trascorso intanto tutto il 1963 e, ciò nonostante, il permesso al trasferimento continuava a farsi desiderare. Quasi per scaramanzia e per incoraggiare con un atto concreto le nostre speranze, avevamo intanto preso in affitto dal Malquori Rino il pianterreno di una palazzina in piazza Gramsci, accanto a quella che allora era la rivendita di legnani del Billeri. L’affitto decorreva dall’inizio del 1964. Avevamo fatto come i fidanzati impazienti che per essere più sicuri di sposarsi si mettono intanto a comperare la casa, ad immaginarla piena di mobili e della loro vita per accorciare il futuro.
Ma i locali rimasero vuoti anche dopo il capodanno del 1964. Una mattina di Gennaio tornai per l’ennesima volta in Banca d’Italia a Firenze per chiedere notizie. Non so se era la mia smania di aprire la Banca in Castelfiorentino che mi faceva vedere ciò che in fondo non c’era, ma in quella occasione mi parve di intravedere un consenso da parte dell’allora capo dell’ufficio di vigilanza.
Tornato a Cambiano riunii il Consiglio di Amministrazione e tutti insieme decidemmo finalmente di tagliare la testa al toro: di procedere al trasferimento mettendo tutti dì fronte al fatto compiuto. “Cosa fatta capo ha”, come diceva Dante.