Nel periodo in cui io giunsi a Castelfiorentino anche questo paese stava vivendo una sorta di rivoluzione economica e sociale, come il resto d’Italia e forse anche più.
Le campagne cominciavano a spopolarsi, il paese si stava estendendo a macchia d’olio. In pochi anni le abitazioni crebbero intorno a viale Roosevelt, via Di Vittorio, Via Gozzoli e via Sant’Antonio. Prima c’erano solo orti, campi e qualche isolata villetta. Ora le case si addensavano anche dietro Santa Verdiana a Sud e lungo via Piave e via Masini a Nord. La vecchia Castelfiorentino, stretta tra il piazzale e le scuole elementari, era esplosa come una macchia di edera rigorosa.
Stava nascendo una imprenditorialità diffusa di piccole e medie dimensioni. Il muratore con le mani ancora polverose di calce si era messo in proprio, aveva buttato via la carretta e si era comprato la betoniera. Bottegai di calzinotti e di pezze di stoffa “ad un tanto il metro” si erano improvvisati confezionisti, davano a rifinire le camicette alle donne a domicilio, che le ricamavano a dieci lire al pezzo con lo stesso punto in croce con cui fino ad allora avevano decorato federe e tovaglie da corredo. Nascevano i laboratori in locali di fortuna dove qualche decina di ragazze tagliavano e cucivano. La sarta d’anteguerra con il catalogo dei figurini di moda si allargava a tentare l’impresa del “pret à porter”. Il vecchio falegname con la spolverina beige metteva su un mobilificio. Il calzolaio con il grembiule impastato di mastice si avventurava ad impiantare un piccolo calzaturificio….
L’economia contadina declinava. Esplodeva invece una miriade di piccole e medie imprese artigiane o quasi. Queste chiedevano finanziamenti, assistenza, necessitavano di fiducia che spesso non trovavano nel vecchio sistema bancario.
E’ in questo quadro, insieme sconvolgente e affascinante, che io cominciai a lavorare a Castelfiorentino. Mi rendevo conto sempre pin che avevamo di fronte a noi uno spazio enorme. Dovevamo solo toglierci di dosso il piombo sulle ali che ci faceva volare troppo basso.
Andai avanti passo dopo passo. Grazie ad un insperato incremento della raccolta si poterono intensificare anche le operazioni di impiego, soprattutto quelle rivolte alle imprese artigiane, che era il settore più emergente, più a noi vicino, e in piena espansione.
Sapevo che se si voleva che la banca sopravvivesse e assumesse veramente un ruolo nella economia del paese, si doveva uscire dal “cono d’ombra” del campanile di Cambiano.
Il progetto di trasferimento a Castelfiorentino, anche se quasi ovvio date le circostanze, incontrava tuttavia grandi difficoltà per le pastoie e le normative burocratiche di quegli anni. Parlai del progetto in Consiglio di Amministrazione. Trovai unanime sostegno a partire dal Presidente Cerbioni e dal professore Mario Lensi, allora Presidente del Collegio Sindacale. Il ragionier Fabbri fornì tutto il suo appoggio all’iniziativa e diede il via alle pratiche burocratiche.
Iniziò così il rito degli innumerevoli pellegrinaggi presso la sede della Banca d’Italia di Firenze per cercare di ottenere il permesso al trasferimento, usando la mia cinquecento che nel frattempo mi ero comperato per metà in contanti e per metà sottoscrivendo piccole cambiali mensili. Qualche volta per aggirare l’ostacolo e velocizzare le pratiche ci recammo anche alla sede centrale a Roma.
Passarono lunghi mesi di attesa. Alla fine arrivò la lettera della Banca d’Italia con cui ci negavano il trasferimento; per la verità, con motivazioni piuttosto generiche e vaghe. Decisi subito di prendere il toro per le corna e di correre a Firenze a chiedere ulteriori spiegazioni al Direttore della Banca d’Italia. Sapevo che la Cassa era ora pronta e organizzata per intraprendere l’avventura che avevo di fronte e mi sentivo preparato ad affrontarla. E poi pensavo al mio avvenire. “Perdio” – pensavo, mentre attraversano ancora una volta con la mia cinquecento la strada Volterrana di Montespertoli – “voglio vedere come fanno a dire di no ad iniziative socialmente ed economicamente di tutto rispetto, questi signori, che stanno al calduccio d’inverno e al fresco d’estate, con lauti stipendi”.
Finalmente mi trovai davanti allo scoglio che mi frustrava, cioè al Direttore in persona.
Il Dirigente tentò vanamente di persuadermi con toni pacati e paternalistici, ma io non mi lasciai convincere. Avevo davanti a me negli occhi non solo il mio avvenire personale, ma anche quei piccoli operatori economici che sapevo che avevano bisogno della “loro Banca”. Insistetti fino all’esaurimento. Alla fine mi fu fatto capire che si poteva fare un altro tentativo per ottenere il trasferimento, alla condizione che il Consiglio di Amministrazione fosse meno “comunista”. In sostanza, mi accorsi che si voleva che nel Consiglio entrassero anche persone di idee politiche diverse.
Appena tornato a Castelfiorentino informai subito il Cerbioni e il Lensi del contenuto del colloquio. Fu convocato subito il Consiglio di Amministrazione e la questione fu posta, come si dice, sul tavolo. In quella occasione ebbi modo di valutare come tutti gli amministratori fossero legati alla loro istituzione e disposti a tutto pur di garantirne il futuro. Il Presidente Cerbioni dichiarò addirittura che tutto il Consiglio si sarebbe dimesso se questo gesto fosse stato indispensabile per raggiungere l’obbiettivo che ci proponevamo. Pregai allora i consiglieri di soprassedere a questa drastica decisione e di attendere almeno l’assemblea annuale che approvava il bilancio. Non fui ascoltato e si volle provvedere subito. Fu dato incarico al Presidente Cerbioni, al Vice-Presidente Conforti e al Presidente del Collegio Sindacale professor Lensi, di riequilibrare il consiglio secondo l’invito della Banca d’Italia, inserendovi due nuovi esponenti aziendali e di procedere subito con una nuova domanda di trasferimento.