Verso la metà degli anni Novanta la Cambiano era ormai diventata di fatto per patrimonio, volume d’attività, numero di occupati, una grande impresa bancaria.
Per fare solo un esempio la Cambiano aveva a propria disposizione titoli per oltre cinquecento miliardi. Era un piatto troppo ghiotto per palati golosi. Mentre io, ignaro degli appetiti che la Cambiano poteva ormai stuzzicare, mi occupavo solo del mio lavoro, cominciavano evidentemente ad organizzarsi alle mie spalle le grandi manovre per cercare di mettere le mani su quel ben di Dio che in trentotto anni la Cambiano aveva racimolato.
Il primo attacco fu per me un fulmine a ciel sereno. In un consiglio di amministrazione del Febbraio del 1997 il Presidente del Collegio Sindacale, Paolo Viviani, propose che gli oltre cinquecento miliardi delle disponibilità della Cambiano, fossero gestiti dalla Cabel Sim.
La proposta fu appoggiata con seria determinazione dal Cappelli che si era forse dimenticato che negli anni precedenti aveva avallato il progetto e i costi relativi alla costituzione di un particolare settore specializzato in seno alla Banca, destinato alla gestione diretta delle liquidità.
Benché preso di sorpresa e aggredito alle spalle da questo blitz improvviso, io non riuscivo a comprendere questo rovesciamento di ruoli per cui colui che doveva essere il tutore degli interessi della Cambiano si dava da fare per affidare ad altri la gestione del suo patrimonio. Al limite potevo comprendere, in una logica di puro tornaconto aziendale, l’avance tentata dal Viviani che cercava di mettere la mano sulla parte più appetibile della Cambiano. Il Viviani era presidente della Cabel e in fondo faceva il suo mestiere.
Ma il Cappelli non solo era Presidente della Cambiano. Negli anni precedenti aveva anche approvato i costi per l’acquisto delle attrezzature sofisticate che la Cambiano aveva sopportato per gestire in prima persona le proprie disponibilità. Aveva avallato le spese per la preparazione del personale qualificato necessario a gestire direttamente i titoli. Mi domandavo se il Cappelli era consapevole del significato della proposta che appoggiava. Se si rendeva conto che così, anziché difendere gli interessi della banca che presiedeva, appoggiava le pretese di una società terza seppure da noi partecipata. Il Cappelli inoltre sapeva benissimo che la Cambiano aveva strumenti e professionalità di gran lunga superiori a quelli che ci poteva offrire la Cabel Sim.
In quella occasione mi appellai direttamente ai consiglieri che, rimasti attoniti di fronte alla proposta, si schierarono dalla mia parte. L’attacco per il momento fu respinto. lo avevo vinto, ma non volevo stravincere. Tenevo ancora alle buone relazioni fra le persone nell’interesse della banca e nell’interesse di tutti. Non volevo umiliare nessuno e proposi, per così dire, una sorta di premio di consolazione per gli sconfitti, che desse loro l’impressione di aver conseguito un compromesso, anziché uno smacco. Proposi di concedere alla Cabel Sim la gestione di settantacinque miliardi. Fra parentesi devo dire che nel corso degli esercizi successivi i rendimenti ottenuti dalla Cabel, nella gestione di questi settantacinque miliardi, risultarono molto più magri di quelli ottenuti dall’ufficio finanza interno della Banca nella gestione del resto dei fondi.
Comunque questo spiacevole episodio avrebbe dovuto farmi riflettere. Invece non ci pensai che per qualche giorno. Ero così ottimista nei confronti della lealtà e della buona fede degli uomini che non riuscivo a immaginare né complotti né vendette. Pensavo che il tentativo abortito fosse solo una scaramuccia, mentre era invece l’inizio di una guerra contro la Cambiano prima sotterranea e poi esplosa alla luce del sole.
Come gli abitanti di Troia, avevo creduto che i “greci” si fossero ritirati desistendo dall’impresa. Invece dovetti accorgermi più tardi che stavano costruendo il loro cavallo. Il loro cavallo sarebbe stato il nuovo Consiglio di Amministrazione. Era logico visto che dal consiglio di allora il primo assalto era stato respinto.
Invece io tendevo nel mio innato spirito di amicizia a comprendere, a perdonare, ad assolvere. Il Viviani, pensai, aveva compiuto solo un tentativo in fondo legittimo per rafforzare la sua Cabel. Di fronte al rifiuto del Consiglio di Amministrazione, costui si era ritirato in buon ordine e mi era parso persino soddisfatto dei settantacinque miliardi che aveva avuto. Pensai che, ammansito il Viviani, non c’era da preoccuparsi del Presidente Cappelli che in fondo lo seguiva pedissequamente.
Nei confronti di queste persone io mantenni nei mesi successivi la più assoluta e doverosa lealtà. Devo confessare che non ho avuto mai molta simpatia per il Cappelli. Ma nelle società, è noto, i presidenti sono come i parenti che ci vengono dati in sorte: non li possiamo scegliere, ma si devono accettare. E bisogna cercare di conviverci anche quando non coincidono al cento per cento con il nostro carattere, e con il nostro gusto. Io in trent’anni ho sempre rispettato il Cappelli e l’ho difeso nella sua posizione sia quando era presente sia quando era assente.
Ricordo una riunione con i professionisti di Castelfiorentino svoltasi poche settimane dopo lo “spiacevole incidente” nel consiglio di amministrazione di cui ho parlato. In quella occasione un noto commercialista di Castelfiorentino, forse invidioso del fatto che il Cappelli, oltre che Presidente della Banca, era anche un suo concorrente con il suo ufficio privato di consulente fiscale, introdusse bruscamente il tema del rinnovo del Consiglio di Amministrazione che nulla aveva a che fare con l’oggetto della riunione. Assente il Cappelli, il collega cominciò a predicare che era arrivata l’ora di cambiare il presidente perché era ormai troppo tempo che era alla guida della banca. Intervenni subito energicamente. Protestai che l’argomento era fuori dei temi della riunione. Dichiarai con forza che non ero disposto a trattare neppure informalmente simili argomenti e che il Cappelli, comunque finora, aveva svolto bene il suo compito.
Come allora, fuori dalle sedi istituzionali della banca, ho sempre difeso il mio Presidente. Ovviamente nelle sedi istituzionali non avevo timori reverenziali nel discutere le sue tesi quando non erano da me condivise per il bene della banca. Consigliare, correggere e rettificare rientrava anzi nei miei doveri istituzionali. Come diceva quel tizio: “Quando in una azienda due uomini sono sempre d’accordo c’è esuberanza di personale perché uno dei due è di troppo”.
Ma per il resto io sono sempre stato corretto e leale verso il mio Presidente.
A maggior ragione non riesco ancora a comprendere l’atteggiamento finale del Cappelli che si mostrerà alla fine, come vedremo, così accanito contro di me. Ho imparato a mie spese quanto sia vero il detto famoso: “Beati quelli che non si aspettano gratitudine perché non resteranno delusi”.