Il giorno dopo mi chiamarono molti soci e alcuni dipendenti. Erano venuti a sapere delle trattative della sera prima. Mi dissero che non erano d’accordo su ciò che era stato deciso. Non volevano arrendersi a quello che consideravano un pateracchio, un inciucio senza senso e senza logica.
Fu così che nel corso del primo pomeriggio avevo già deciso di continuare a sostenere le mie ragioni. Avevo ricevuto troppi attestati di stima e di fiducia.
Alcuni dipendenti vollero venire a trovarmi. C’erano lo Zingoni, il Fornai, il Bagni, il Baldacci, il Cinci, il Monnecchi e il Cartoni e tanti altri. Fui commosso dal fatto che ancora tanti dei “miei ragazzi” si stringes sero ancora intorno a me.
Mi colpì soprattutto la fedeltà del Cartoni che solo da poco tempo era entrato alla Cambiano.
Lo misi in guardia come un padre:
“Fabrizio, chi te lo fa fare? Sei appena entrato! Ti compro- metti. Ormai la partita è persa: tirati da parte!”.
Ma il Cartoni non demordeva:
“Direttore, io ho trovato in lei una persona della massima stima e rispetto. E poi se devo continuare a lavorare con persone che hanno tradito colui che li aveva considerati come fratelli, figuriamoci se posso aver fiducia in loro”.
Poi mi raccontò che in una riunione ad Empoli il Viviani aveva minacciato di togliere la fornitura dei servizi informatici alla nostra Banca se io fossi rimasto a dirigerla o a ricoprire un qualsiasi ruolo istituzionale e che di fronte ad una sua domanda chiarificatrice era stato invitato a stare zitto.
Lo Zingoni raccontò che gli era stato chiesto di raccogliere deleghe per la lista ufficiale della Banca nella prossima assemblea. Il Fornai confermò la stessa richiesta anche nei suoi confronti.
Il Bagni raccontò che alcuni titolari di agenzia avevano già iniziato la raccolta delle deleghe.
Il Cartoni disse anche che un certo Capodarca Gaetano, che lui a malapena conosceva, era piombato nel suo ufficio per minacciarlo di ritorsioni nel caso che continuasse ancora ad appoggiarmi.
Fui io a cercare di calmarli:
“Ahimè! Che tristezza, ragazzi! Il mondo è un teatrino dove ci sono pupazzi e pupari. Lasciate stare i primi che forse non sanno nemmeno quello che fanno e non si accorgono nemmeno che hanno i fili sulle spalle”.
Col passare dei giorni la lotta si faceva sempre più dura. Le file dei miei sostenitori si assottigliavano sempre più. Troppi interessi sia professionali sia politici gravitavano intorno alla Banca. Il potere di chi aveva in mano le leve del comando da una parte e dall’ altra era en orme, pervasivo, irresistibile. Si cominciò a screditare anche la mia persona. Qualcuno mi tacciò di arteriosclerosi. Eppure anche se io avessi avuto il colesterolo alto la Banca che lasciavo scoppiava di salute.
Nell’ultimo esercizio aveva conseguito un utile di 30 miliardi netti.
La discesa in campo del sindaco Regini aveva sicuramente posto fine alla partita. Pure i nuovi dirigenti della Banca, il Bosio e il Simoncini, che era passato presto dall’altra parte con la nomina a vice-direttore, volevano che anche la Banca contribuisse alla loro vittoria. Era un modo per conservare ancora dei punti rispetto al potere politico che avanzava.
Una grande pressione fu esercitata sul personale perché si schierasse compatto contro il Cacialli in nome della lealtà verso l’istituzione che dava loro lavoro e in nome di un presunto interesse della Banca. Era difficile per loro sottrarsi a questa sollecitazione che imponeva di schierarsi dalla parte del vincitore. Il proprio futuro, la propria carriera, gli stessi rapporti interpersonali all’interno dell’azienda dipendevano dai vertici della Banca. E’ difficile restare in un ambiente di lavoro quando si sa che su di noi pesa il sospetto dei dirigenti e la ostilità del vicino di scrivania.
In questo clima sempre più pesante molti si adattarono subito e si diedero a raccogliere deleghe e a convincere i soci in previsione della prossima assemblea. Altri che volevano mantenere una posizione neutrale dovettero alla fine arrendersi al più forte. Alcuni fecero finta di adattarsi alla situazione mentre però segretamente il loro cuore continuava a battere dalla mia parte.
Altri col tempo sono riusciti ad abbandonare la Banca perché non volevano sottomettersi al nuovo potere interno .
Nello stesso tempo l’attivismo dei dirigenti della Cambiano si svolgeva anche direttamente nei confronti dei soci. Una necessità finanziaria, un affidamento, condizioni particolarmente favorevoli: ogni occasione era buona per avvicinare i soci e, “en passant”, per parlar loro della necessità di neutralizzare e isolare il Cacialli, l’ex Direttore da mettere al bando mentre la Banca scoppiava di salute, l’eretico che tramava perché 1’Istituto andasse in malora quando l’aveva portato ai più alti vertici del successo.
I soci della Banca erano circa 2.200. Se questa cifra si moltiplica per i membri delle loro famiglie si giunge quasi ad un numero di ottomila persone che in quei giorni furono informate del mio licenziamento e in qualche modo sollecitate ad approvarlo e a sanzionarlo. Le ragioni di quel provvedimento erano in fondo sconosciute perfino a me che ero stato cacciato dal mio lavoro e che dentro la Banca fino al giorno prima c’ero stato conoscendone tutti i segreti. Quanto più le ragioni del mio licenziamento erano oscure e incomprensibili tanto più ognuno era autorizzato a pensare al peggio e ad esercitare la fantasia.
Se il Cacialli era stato buttato fuori mentre la Banca andava benissimo che cosa mai poteva aver combinato questo manigoldo per essere cacciato dalle stelle alla stalla in pochi giorni? Aveva portato a casa la cassaforte? Si era comprato un castello nel Chianti con i soldi dei soci? Aveva fatto un buco nei suoi conti grande come una casa?
Tutti in paese in quei giorni parlavano del mio licenziamento. Era l’argomento numero uno delle conversazioni, e per me difendermi era non solo un bisogno di restare in un posto a cui avevo dedicato tutta la vita, ma anche di salvare il mio onore. Non per colpa mia, in quasi quaranta anni di lavoro, ero diventato un personaggio conosciutissimo.
In un licenziamento di un impiegato qualsiasi il fatto è conosciuto, oltre che dal diretto interessato, da una decina di persone.
Nel mio caso diventava un evento di opinione pubblica. Migliaia e migliaia di persone, appena informate o male informate parlavano e sparlavano di me senza che mi potessi difendere. Io non avevo né una Banca né un partito alle spalle che si facesse apostol o delle mie ragioni con centinaia di catechisti.
Ero solo.
Non avevo nessun altoparlante che potesse entrare nelle case dove sapevo che il mio nome era discusso e infangato per dire: “Non è così! Non sono un mostro, non sono un rimbambito, non sono un disonesto, non sono un incapace, non sono un traditore della Banca che invece ho difeso per voi”.
Non c’è maggiore angoscia, per chi è punito con la coscienza a posto, che restare solo con la propria coscienza e il sapere che intorno a te sei stato condannato da migliaia di persone che non hanno assistito al tuo processo, che non hanno ascoltato la tua difesa.
Da questa angoscia, da questo bisogno di riscattare il mio nome di uomo e di funzionario è nato anche questo libro.
Mi costa molto in termini di rievocazione perché si sa, “non c’è maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nelle disavventure”.
Mi costa molto in termini di impegno personale, ma è una liberazione, l’unica che mi è concessa, il tentativo di riabilitare la mia dignità di uomo e di funzionario.
L’unica cosa che mi interessa è stabilire la verità in mezzo a tanta gente, fra cui si è parlato e sparlato di me, senza che io potessi difendermi.