Giunse alla fine il giorno dell’Assemblea che era stata indetta alle tre e mezza del pomeriggio del 22 Maggio.
Arrivai a Castelfiorentino in compagnia di alcuni amici. L’assemblea era stata convocata nei locali del Centro dello sport Sportlandia.
In quel grande ambiente, capace di contenere più di cinquecento persone, la gente si accovacciava sugli scalini delle gradinate come sugli spalti di uno stadio. Anche l’ambiente evocava la tens ione di opposte tifoserie. Rimasi subito colpito dall’animazione che c’era intorno al palazzetto, di un colore pesante, come la divisa di un soldato in guerra.
C’era una marea di gente.
Facce note, ma anche tanti personaggi che si vedevano per la prima volta. A mano a mano che mi avvicinano all’ingresso rimasi sconcertato dal servizio d’ordine. C’erano i carabinieri della compagnia di Empoli, c’erano tante, troppe, guardie giurate. Sembrava un piccolo G8 con quel miniesercito destinato a reprimere chissà quale sommossa.
Il tutto ispirava un clima impalpabile di intimidazione prima ancora che cominciassero i lavori.
Erano ormai preistoria e favola bella “i tempi di una volta” quando le Assemblee si tenevano a Boscotondo, in un clima cordiale e domestico, come una rimpatriata di parenti e di amici di sempre, prima di un piatto di pappardelle alla lepre e di un arrosto misto alla brace.
Ora si sentiva anche nell’insieme il fiato pesante alle spalle di nuovi protagonisti che erano entrati nella vita, fino ad allora appartata e tranquilla, della Banca; la presenza riflessa del potere politico, la mobilitazione potente e mirata di forze esterne, che fino ad allora non erano entrate nella Banca, senza prima chiedere permesso.
Mi avvicinai all’ingresso. Attraverso la vetrata potei inquadrare il tavolo della Presidenza dove notai la presenza di ben due legali pagati dalla Banca per l’occasione. Poi fui abbordato da uno del servizio d’ordine che evidentemente mi aspettava: “Lei, dove va Cacialli? Il punto di registrazione a lei destinato è quello dove ci sono il Taddei e la Giuliana. Lei può passare solo di lì”.
Le code agli altri sportelli erano lunghe. Al punto che mi era stato indicato non c’era nessuno.
Al “noto contrabbandiere” Cacialli era stato riservato un check point particolare.
Si voleva vedere quello che portava in valigia di cui già si sapeva e sequestrarlo. Come da copione il Taddei mi stava aspettando. Cominciò subito ad eccepire sulle deleghe che io portavo con me. Per lui non erano valide perché erano state raccolte con un ordine del giorno diverso da quello ufficiale. Analoga fine fecero le altre duecento deleghe portate dai miei amici. Andai assieme al Petri Fiorenzo al tavolo della Presidenza.
Ci fu una dura discussione fra noi e i due legali che ora cominciavano a lavorare. Alla fine il Cappelli, come Presidente dell’Assemblea, al quale spettavano per legge le definitive decisioni, annullò tutte le deleghe a nostro favore.
Tutto era previsto e si svolgeva come da copione.
D all’altra p arte continuava invece tranquilla mente l’attribuzione delle deleghe. Come ebbe a raccontarmi un amico che era subito dietro ad una signora, a quest’ultima furono consegnate al momento dell’ingresso due deleghe. Questa domandò perché gli era stato consegnato un talloncino con un numero 3 mentre a chi l’aveva preceduta era stato assegnato un talloncino giallo con un numero uno. L’impiegata spiegò allora alla signora che due soci avevano conferito a lei la delega per cui il suo voto valeva tre.
Ma la signora ribatté:
“Ma io questi due proprio non li conosco”.
L’impiegata chiamò allora il Furesi, che soprintendeva a queste operazioni, e questi imbarazzato, ordinò all’impiegata di lasciare perdere e di consegnare alla signora il suo talloncino da un voto.
Era evidente che, con tutta probabilità, i soci avevano firmato delle deleghe senza sapere nemmeno a chi le rilasciavano. Finalmente con un’ora circa di ritardo sul programma il Presidente Cappelli dichiarò aperta l’Assemblea. Il notaio Frediani, che era stato chiamato a svolgere le funzioni di segretario per dare l’idea della piena correttezza del tutto, dichiarò che erano presenti e rappresentati 915 soci.
Non erano molti per la verità e a quel momento io e il Petri Fiorenzo cominciammo a nutrire la speranza che con quella base elettorale tutto potesse succedere.
Iniziò così l’Assemblea. Furono esperite le formalità di rito. Fu approvato il bilancio, quindi si passò all’argomento caldo di tutta l’adunanza.
Il Presidente Cappelli con una breve relazione spiegò i motivi per cui era stato licenziato il Cacialli. L’intervento non fu molto convincente, anzi, aveva forse segnato un punto a fav ore dell’imputato numero uno, che ero io. Alla fine dell’intervento numerosi furono i dissensi e la platea cominciò a rumoreggiare. Dopo il Presidente toccò a me parlare, dopo che ero stato invitato dal moderatore Regini a contenere il mio discorso entro i cinque minuti che erano stati fissati per tutti.
Cinque minuti per riassumere una vita, cinque minuti come se io fossi il duemiladuecentesimo socio e non il socio in questione per cui erano stati convocati in sostanza duemiladuecento persone. Tuttavia l’Assemblea fu più benigna nei miei confronti e mi concesse tutto il tempo che volevo. Potei così esprimere liberamente il mio pensiero. L’inizio del mio discorso cadde su un silenzio improvviso, quasi tutti erano attenti, le mie parole furono più volte interrotte da applausi convinti.
Venne poi la volta del Viviani. Molti soci e dipendenti si allontanarono dall’aula, chi per dissenso, chi forse per necessità fisiologiche.
Viviani sciorinò una serie di numeri e statistiche atte a dimostrare che la Banca di Cambiano non avrebbe potuto vivere senza la Cabel. Ad un certo punto del suo intervento, interrotto più volte dal dissenso dell’Assemblea, ebbe anche l’ardire di versare qualche lacrima.
Lacrime di coccodrillo per il destino che mi era riservato.
Terminato l’intervento del Viviani che, pur essendo Presidente della Cabel, era ormai il vero padrone della Assemblea dei soci della Cambiano, ci fu il tempo di ascoltare solo due o tre interventi, anche se oltre cinquanta soci si erano iscritti a parlare. Il Bosio, che fremeva perché si arrivasse al pin presto alla rotazione, intervenne per spiegare i meccanismi del voto con la lista bloccata. Non ci fu in questa proposta unanime assenso. Io, insieme al Petri Fiorenzo, feci mettere a verbale che il sistema proposto era illegittimo perché non rispettava il principio democratico e perché ignorava il rispetto delle minoranze. Secondo la proposta di Bosio si andava a votare su due liste contrapposte. Quella da lui sostenuta, la cosiddetta “lista Banca- Comitato” era bloccata. Si dovevano votare tutti e sette i membri o nessuno. Non era possibile votare una persona di una lista e una di un’altra.
Mi resi conto che, nonostante che con il mio discorso avessi convinto buona parte dell’Assemb1ea, la maggioranza aveva ormai partita vinta. C’erano dalla sua le deleghe che erano state raccolte con un lavoro a tappeto di settimane e il richiamo del Sindaco Regini che non poteva essere votato da chi votava anche la nostra lista.
Il Bosio ignorò completamente le nostre obiezioni. Confortato dal parere degli insigni giuristi che dirigevano le operazioni, respinse il criterio delle liste aperte, sorretto dal Presidente dell’Assemblea. Il Cappelli dichiarò aperte le votazioni, anche se ancora decine e decine di soci dovevano parlare. Era ormai l’ora di cena e, secondo gli organizzatori della Assemblea, i soci avevano diritto a distrarsi con il buffet che era stato imbandito per l’occasione.
A questo punto ci fu una grande confusione fra chi parlava, chi mangiava e chi votava. Le votazioni e lo scrutinio durarono per ore fino a notte fonda.
Io ero stanco per quella giornata campale e amareggiato per un esito che davo ormai per scontato. Tornai a casa senza nemmeno attendere i risultati della votazione.
Poco dopo mezzanotte squillò il telefono. Dall’altro lato del filo c’era Daniele Zingoni che insieme al Cartoni aveva atteso l’esito finale dello scrutinio. Lo Zingoni mi raccontò che nel corso della serata i voti dei soci erano lievitati come una torta di marzapane scaldata ben bene. All’inizio l’Assemblea, come abbiamo detto, era stata dichiarata aperta con la partecipazione di 915 persone tra soci presenti e rappresentati per delega.
I voti che erano stati espressi alla fine erano stati invece oltre 1400.
Io misi fine alla telefonata ancor più s concertato: “Cari ragazzi, andate a letto: domani si comincia a parlare con gli avvocati”.
Nei giorni successivi più persone mi confermarono la scena dell’ultimo atto di quella lunga Assemblea.
Il notaio Frediani alla fine, tirando le somme per trascrivere i risultati sul verbale si accorse che i voti superavano di oltre cinquecento il numero di coloro che all’inizio erano dati come partecipanti e rappresentati.
Era sbigottito e si rivolse al Cappelli: “Presidente che è successo? Abbiamo cominciato l’assemblea con 915 fra soci presenti e rappresentati e qui hanno votato oltre 1400. Come si spiega? Ricontiamo le schede”.
Il Cappelli era così confuso che non riusciva nemmeno a rispondere alla domanda.
Intervenne allora il Bosio a spiegare l’arcano: “Ma Notaio, sono tutti quei soci che il Presidente ha ammesso dopo l’inizio dell’Assemb1ea, non si ricorda Presidente?”.
Il Notaio insistette allora perché fossero ricontrollate tutte le schede. Ma le schede erano ormai state archiviate in Banca. Fino al mattino seguente non sarebbe stato possibile nessun controllo.
“La guardia è stanca” come disse quel tale che sciolse la prima assemblea dei Soviet.
Il Notaio, vista l’ora tarda si arrese e concluse il giorno più lungo della storia della Banca dicendo: “Se lo dite voi e ve ne assumete la responsabilità io trascrivo i risultati nel verbale”.
In sostanza una registrazione puntuale dei votanti non era possibile.
Così finì l’Assemblea che pose fine ad un periodo della storia della Cassa Rurale di Cambiano.
Secondo lo stesso verbale dell’Assemb1ea i soci che avevano votato essendo personalmente presenti e rappresentati erano solo 915. I votanti 1437!
L’ASSEMBLEA DEL 22 MAGGIO