Ma torniamo alla narrazione dei fatti.
Anche se sapevo che nell’Assemblea sarei stato sconfitto decisi che era giusto presentare una lista dei miei sostenitori, pochi o molti che fossero. Oltre cinquecento persone avevano firmato la richiesta di Assemblea per sostenere le mie ragioni.
Non era giusto ignorare o tradire la volontà che queste centinaia di persone avevano espresso.
Mi accorsi allora che il Cacialli faceva ancora paura, anche se aveva raccolto intorno a sé una minoranza di soci. Questa parte non doveva aver voce né rappresentanza.
Io non dovevo mettere più piede nella Banca non solo come Direttore, ma anche come voce di una parte dei soci che ancora si riconoscevano in me.
Fu per evitare questa eventualità che si decise da parte di chi voleva fare terra bruciata intorno a me di presentare una lista bloccata alla Assemblea. In pratica si sarebbe presentata una lista di sette nomi già scelti a tavolino, tanti quanti erano i membri del Consiglio di Amministrazione. I soci in assemblea dovevano approvare in blocco questa lista.
Non si potevano né cancellare i nomi né aggiungerne di nuovi.
Così i soci non potevano scegliere le singole persone, ma solo ratificare in blocco scelte già fatte. Come in un ristorante a prezzo fisso si doveva insomma ingoiare dal primo all’ultimo i piatti che erano portati in tavola, solo quelli e tutti, anche eventualmente tappandosi il naso.
Il meccanismo non era molto diverso dal famoso “listone” del periodo fascista quando gli italiani dovevano solo dire si o no all’elenco dei nomi che il Duce metteva loro davanti. Se un sistema simile fosse adottato nelle nostre elezioni politiche avremmo in Parlamento i rappresentanti di un solo partito e tutti gli altri a casa.
Chiesi allora ed ottenni un colloquio con il Sindaco Regini che nel frattempo era diventato socio della Banca con una procedura per direttissima a differenza di altri aspiranti soci che spesso dovevano attendere mesi prima di essere ammessi.
Nel colloquio con il Regini, che di fatto era ormai Presidente in pectore della Banca, gli rammentai che per lui che era un politico intelligente non era bello ricorrere a queste scorciatoie e a questi sotterfugi per diventare Presidente, mentre poteva giungere a questa carica per la porta principale senza strozzare la rappresentativa democratica del Consiglio di Amministrazione e senza tagliare fuori i portavoce di una parte dei soci. Gli dissi, che era necessario presentarsi al giudizio dell’Assemblea in modo che ogni socio avesse la libertà di scegliere le singole persone che riteneva più adatte ad entrare nel Consiglio.
Si dovevano insomma votare gli uomini e non gli schieramenti già precotti e confezionati.
Gli proposi infine di presentarsi in una lista di quindici candidati di cui sette sarebbero stati eletti secondo la scelta dei votanti. Gli feci notare che anche in questo caso lui non aveva difficoltà ad essere eletto per primo. Anche se, aggiunsi, probabilmente fra i sette eletti ci sarei stato anch’io. Se si procedesse così, dissi ancora, non si creerebbe nessuna spaccatura all’interno della Banca, il Consiglio di Amministrazione rappresenterebbe tutti i soci, sarebbero rispettate le regole democratiche e sarebbero tutelate le minoranze.
Seguì un momento di lunga pausa.
Il Sindaco mi dette ragione nella sostanza.
Poi laconicamente, come pronunciando una sentenza già decisa in un’altra camera di consiglio, affermò:
“Cacialli, gli accordi ormai sono già giunti a conclusione”. Capii allora che i miei nemici all’interno della Banca avevano concesso tutto quello che potevano concedere: nuovo Consiglio e nuovi nomi in Consiglio.
Ad una sola condizione: che il sottoscritto non mettesse più piede nella Banca anche passando dalla finestra. Dicevano sì a qualsiasi nome purché si dicesse no ad uno solo: il mio. Nei giorni successivi il numero dei miei sostenitori che avevano firmato davanti ad un notaio la richiesta per ottenere la cosiddetta Assemblea delle Minoranze superò ampiamente il numero di cinquecento soci.
Fui avvicinato dal signor Petri Fiorenzo, anche lui molto amareggiato per le vicende e i tradimenti a catena che mi avevano perseguitato. Il Petri mi sollecitò a cercare fra i soci che mi erano rimasti fedeli un gruppo di sette o otto persone disponibili a candidarsi. Avremmo presentato una lista in antitesi a quella proposta da una parte del Comitato avallata dalla Dirigenza della Banca.
Si presentarono sette persone che, con il coraggio di un commando suicida, si dichiararono disposte ad autocandidarsi.
Nel frattempo poiché le firme che chiedevano l’Assemblea delle Minoranze erano ormai più del quorum necessario, le presentai al ragionier Cetti che appena un mese prima aveva promosso la raccolta delle firme.
Gli chiesi di depositarle in Banca in modo che l’Assemblea si tenesse sull’ordine del giorno richiesto dai sottoscrittori e fossero valide le circa duecento deleghe che nel frattempo erano state raccolte per essere presentate all’Assemblea.
Ma il Cetti che in poche settimane aveva cambiato completamente opinione, non presentò mai le firme, né la richiesta di Assemblea, né le deleghe sociali.
“Cosi’ va il mondo, bimba mia” come diceva una vecchia commedia.
Un professionista che non molti giorni prima aveva chiesto un mandato a centinaia di persone ora si rifiutava di assolvere quel mandato che cinquecento di esse gli avevano conferito dandogli la loro fiducia perché rappresentasse le loro istanze.
Questa mancata presentazione della richiesta della Assemblea delle Minoranze permise alla dirigenza della Banca di indire un’Assemblea con un nuovo ordine del giorno, facendo così decadere tutte le duecento deleghe che erano state affidate per un ordine del giorno diverso.
Eravamo or ma i alla vigilia di questa Assemblea.
Io passavo quasi tutto il giorno al telefono. Dovevo rispondere a decine e decine di soci che mi davano solidarietà e mi chiedevano il perché di tanto accanimento contro di me.
Quello che non ho potuto dire con le bollette salate del telefono in quei giorni mi sento obbligato a dire loro ora con questo libro.