Il 4 Novembre 1966 era venerdì e, come tutti gli anni, festa delle Forze Armate e della Vittoria. Come tutti i giorni di vacanza di buon ora uscii di casa per andare a comperare il giornale. Pioveva di una pioggia ininterrotta che durava dal giorno prima. Mentre scendevo verso il centro di Montelupo incontrai il mio amico Giacomo Orefice, ex Direttore Generale della Banca di Credito Cooperativo di Montelupo, il quale si disperava perché la sua banca era stata allagata. Lì per li fui quasi sorpreso di questo fatto straordinario, poi piano piano, mentre mi inoltravo nel centro basso del paese, mi resi conto del disastro che aveva colpito Montelupo. Immaginai che, se la Pesa aveva tracimato, la stessa cosa poteva avere fatto l’Elsa a Castelfiorentino.
Tentai di mettermi in contatto telefonico con gli impiegati che risiedevano sul posto, ma la linea era interrotta. Sempre più allarmato e preoccupato decisi allora di andare a vedere ciò che era successo, ma raggiungere Castelfiorentino non era facile. La Pesa aveva distrutto il ponte che collegava Montelupo alla Ginestra. Per raggiungere Montespertoli dovetti compiere un lungo giro alle spalle della Valdipesa. Solo in tarda serata potei arrivare a Castelfiorentino. Appena sceso dal Camposanto e giunto a S. Piero vidi lo spettacolo che ho ancora negli occhi.
Castelfiorentino era un enorme lago giallo che si estendeva da via IV Novembre fino alla fornace dei Praticelli. L’Elsa era scomparsa in un unico grande vortice lento. Le case sembravano accorciate e amputate dall’acqua che aveva tolto loro il pianterreno. Il paese sembrava un grande villaggio su palafitte, una Venezia lurida e limacciosa. Più giù dalla piccola discesa di Passaponte, dove l’acqua finiva, vidi la palazzina della banca inghiottita a metà. La nostra sede poteva essere raggiunta solo in barca.
Per il momento non potei fare altro che quello che fece Noè: aspettare che l’acqua defluisse. La mattina dopo, l’acqua se ne era andata, ma lo spettacolo era ancora più deprimente. I cespugli del piazzale davanti alla Banca erano diventati densi e neri, impastati di fango e gasolio come gabbiani finiti negli scarichi di una petroliera incagliata. Più in là in via Costituente la furia dell’acqua aveva divelto i cubetti di porfido del fondo stradale e li aveva accumulati accanto al grattacielo come se si trattasse di un’opera umana.
Insieme al Lami alzai la saracinesca della Banca accartocciata dall’acqua. Al di là della saracinesca ci colse la disperazione: il nostro lavoro di anni era coperto da acqua e da fango.
Reagimmo con determinazione e anche con rabbia. Dalla fedele cinquecento tirar fuori le pale e gli stivali che ero riuscito ad accaparrarmi prima che in quei giorni, in cui tutti diventarono sterratori, diventassero merce preziosa.
Il buon Lami, come Giobbe, spalava in silenzio, io invece imprecavo più di quanto spalassi, spalavo più di quanto imprecassi. Una volta liberata alla meglio la stanza, giungemmo alla cassaforte. L’aprimmo: dentro i soldi ci apparvero diluiti in un’ enorme massa di poltiglia. “E ora, porca puttana, che si fa ?” mi domandai infuriato, quasi aspettassi una risposta dal cielo.
Il cielo stette zitto, ma la risposta mi arrivò raso terra dal buon Lami che fino allora aveva sudato in silenzio:
“Oh Cacialli! E si lavano e poi si stimano! E ricordati che il fuoco è peggio dell’acqua!”
Questo era ed è tuttora il Lami Giovanni. Nemmeno l’alluvione aveva scomposto il suo carattere e la sua saggezza olimpica.
Prendemmo dei catini e dei secchi di plastica, cercammo dell’acqua pulita e come dice il detto popolare, “Maria lavava e Giuseppe tendeva”. Il Lami detergeva con cura le banconote ed io ero addetto alla tenditura. Una volta scolati, i fogli di banconote venivano sottoposti a stiratura a freddo.
Nella serata sopraggiunsero i rinforzi nella persona dello Spinelli e la mattina seguente dello lacopozzi. L’alluvione ci aveva trasformato da impiegati di banca in lavoranti di una lavanderia.
Il 7 Novembre, dopo soli tre giorni dal disastro, la Banca funzionava di nuovo con calcolatrici a mano e tanta buona volontà per alleviare, secondo le nostre possibilità, i danni che tutti avevano subìto. Le altre banche, nonostante la loro organizzazione, riuscirono ad aprire soltanto una settimana dopo di noi.
Nella stessa giornata del 7 Novembre mi misi in contatto con il Presidente Cappelli e con tutti i Consiglieri. Fu deciso di riunirci la sera stessa per valutare la situazione. Emerse subito che la catastrofe era gravissima. Più tardi, a conti fatti, fu valutato che oltre duecento imprese artigiane e quasi altrettante imprese commerciali e industriali avevano subìto danni ingenti dall’alluvione. C’era chi aveva perso il lavoro e chi aveva perso anche la casa. Invadendo i piani terreni l’acqua aveva distrutto non solo i bruciatori di gasolio e le auto che c’erano rimaste, ma anche i diffusissimi piccoli laboratori familiari che, allora più di oggi, erano collocati nei cosiddetti “garage”. Era quindi necessario che a nessuno venisse negato l’aiuto della Cassa. Mi vennero date precise disposizioni e ampie deleghe: chi aveva perso tutto doveva essere aiutato. Chi aveva intenzione di riprendere la sua attività dopo la catastrofe, doveva sentirsi appoggiato dalla Banca.
Queste furono, in sintesi, le parole d’ordine del Consiglio di Amministrazione, che feci mie.
Da allora io presi spunto da quella situazione di emergenza per semplificare al massimo le nostre operazioni. Presi contatti con l’Artigiancassa, col Mediocredito, con l’Istituto Mobiliare Italiano e con altri istituti dl credito speciale che fino ad allora avevano snobbato la nostra “Banchina”. Riuscii ad attivare i giusti canali perché agli operatori di Castelfiorentino non mancassero le forme di finanziamento più appropriate in quel drammatico frangente.
Il primo finanziamento artigiano fu erogato appena un mese dopo l’alluvione. In pochi mesi furono perfezionate novantuno pratiche per finanziamenti speciali da parte della nostra banca.
L’anno seguente al dramma dell’alluvione fu inaugurata la nuova sede nei fondi che ci aveva venduto “Guidino”. In quell’occasione avemmo, per la prima volta, la conferma che non eravamo più il parente povero delle altre banche. Alla inaugurazione sentirono il dovere di partecipare tutte le autorità locali e i rappresentanti del mondo cooperativo. Nei nuovi locali di via Piave la Cassa Rurale era una istituzione con massimo rispetto. Non era solo una questione di immagine. I depositi raggiungevano circa il miliardo. Gli impieghi superavano ampiamente i seicentomilioni.
La Banca ormai, anziché essere disprezzata, veniva portata ad esempio per il suo grado di organizzazione e di competitività. Le altre banche, presenti sulla piazza, cominciarono a temerla e a riservarle il massimo rispetto.