Alle tre del pomeriggio rientrai nel mio ufficio. Vidi sul tavolo una busta con il mio indirizzo. La aprìi, la lessi: era la lettera del mio licenziamento.
Il Bosio si precipitò nella mia stanza e, meravigliandosi della mia compassata e non usuale calma, mi guardò, e mi disse con aria soddisfatta: “Stai attento, Beppe, che una lettera come questa ti sarà mandata a casa”.
“Perché? Che bisogno c’era di fare una raccomandata a casa mia? Il licenziamento è un atto ricettizio valido alla consegna della lettera”. “Non so i motivi dell’invio della raccomandata a casa tua, ma ti ripeto che ti sarà mandata”.
“Perdio – risposi – questi sono colpi bassi che non fanno onore a chi li tira”.
Devo confessare qui una triste situazione familiare. Mia moglie soffriva da tempo di una forma di depressione nervosa. Era da poco uscita a fatica da un periodo di crisi. Sapevo che se avesse visto la lettera di licenziamento forse sarebbe ricaduta subito nella sua malattia. Per questo, in tutti quei mesi, con grande sforzo, le avevo tenuto nascosto il dramma che stavo vivendo.
La mia stanza era diventata una sala d’aspetto. Il Presidente Cappelli aveva invitato a ore diverse i titolari delle filiali nel suo studio per comunicare loro il mio licenziamento. Ognuno di loro poi passava nel mio ufficio per portarmi la triste notizia, quasi per averne conferma ancora increduli.
Ricordo solo di quei momenti la disperazione e la rabbia dello Zingoni e del Fornai. Ma io non vedevo e non sentivo più nulla. Il mio pensiero ora era rivolto altrove, a quella maledetta raccomandata che mi sarebbe arrivata a casa.
Pensavo a mia moglie e a lei sola. Fui sopraffatto.
Chiamai il Bosio e gli dissi:
“Avete vinto. Sono disposto anche a dimettermi. Ma voglio la garanzia che non mi arrivi la raccomandata a casa”.
“Bene – disse lui – è possibile, devi telefonare al Viviani, sono certo che lo troverai d’accordo”.
Erano circa le diciassette.
Telefonai al Viviani e gli dissi: “Ebbene, avete vinto, sono disponibile a dimettermi ad una sola condizione, voglio solo la sicurezza che non arrivi nessuna raccomandata a casa mia”.
Il Viviani rispose: “O passami Bosio”.
Il Bosio cominciò a telefonare a destra e a manca per convocare il Consiglio. Poi mi disse che dovevamo trasferirci tutti alla Azienda Falegnami. Là trovai i consiglieri Benedetti, Casini e Isolani e all’improvviso arrivò il contrordine di trasferirci tutti in Banca. Nella sede vidi ad aspettarci il Presidente Cappelli e gli altri consiglieri. Erano tutti raggianti per il risultato che finalmente avevano ottenuto. Io mi ero arreso perché ero stato minacciato nel1’unico tallone di Achille che avevo: l’amore per la mia compagna di tutta una vita. Il Bosio buttò giù la lettera di dimissioni. Dentro ci volle aggiungere la mia disponibilità a collaborare con la Banca e con il gruppo Cabel.
Io la firmai quasi senza guardarla. Non mi interessava più niente, avevo solo il terrore che quella sciagurata lettera non mi entrasse in casa.
Presi la lettera di dimissioni, entrai in Consiglio, la lessi e dissi davanti a tutti i consiglieri: “Signori, avete vinto la battaglia e la guerra, ma solo perché mi avete colpito nel posto giusto. Ora dovete garantirmi che la lettera raccomandata non arrivi mai al mio domicilio”. Ebbi questa assicurazione dal Cappelli e dal Viviani.
Prima di lasciare la Banca il Bosio mi chiamò di nuovo e mi disse:
“Beppe, per maggiore certezza se vuoi essere sicuro che la raccomandata non arrivi a casa tua, domani mattina, sabato, devi stare intorno a casa ad aspettare il postino e poi, verso mezzogiorno, ti presenti all’ufficio postale di Montelupo e chiedi se c’è una raccomandata per te”.
“Ma allora – replicai di nuovo in ansia – la lettera l’avete mandata o no?”.
Il Bosio al solito fu vago: “Sai, è successo un po’ di confusione, ma non ti preoccupare. Fai come ti ho detto e tutto filerà liscio”.
Io insistetti:
“Francesco, se c’è un minimo rischio devi dirmelo. Tu sai benissimo la mia situazione familiare. Devo decisamente evitare che mia moglie possa avere una ricaduta”.
Lui sapeva benissimo di che parlavo. Per ironia della sorte un anno prima il Bosio e il Viviani mi avevano suggerito un medico specialista che per la verità era riuscito a curare con ottimi risultati mia moglie.
Medico, come vedremo, a cui dovetti purtroppo di nuovo ricorrere.
Il sabato mattina intercettai il postino che non mi consegnò alcuna raccomandata. Pochi minuti prima della chiusura andai all’ufficio postale e mi dissero che non c’era nessuna raccomandata in giacenza per me. Tirai un sospiro di sollievo.
Il sabato sera stesso iniziai con molta prudenza a preparare mia moglie all’accettazione del nuovo futuro che mi vedevo davanti. Finsi di essere stanco di dirigere la Banca, cercai pretesti. Dissi che sarei stato più vicino a casa e avrei lavorato meno. Lei mi ascoltava perplessa. Non era convinta perché mi conosceva troppo bene. Ma sapevo che alla fine sarei riuscito a persuaderla.
Negli ultimi tempi aveva notato che la sera rientravo molto stanco e depresso. Insomma pensavo che pian piano l’avrei convinta delle mie pietose bugie.
Il lunedì mattina tornai in Banca. Intorno alle dieci squillò il telefono. Era mia moglie che, tutta sconvolta, mi comunica che era arrivata la famigerata lettera raccomandata.
Non capii piti nulla. Il mio ufficio era pieno di gente che era venuta a salutarmi e a portarmi la loro solidarietà. Mi alzai e fuggii senza nemmeno dire una parola.
Avevo bisogno di trovare una tana dove covare la mia rabbia e il mio dolore di ferito nel mio nervo più scoperto. Non solo si era vinto, ma si era stracciato anche il trattato di pace che mi era stato imposto.
Si era colpito non solo il Cacialli, ma anche la sua famiglia.
In guerra si può colpire il nemico, ma si cerca di risparmiare donne e bambini. Ero esasperato e distrutto.
Da subito cominciai a pensare che era mio dovere avvertire anche i soci di tutto quello che era successo. Anche se già in paese le voci correvano da sole come un fiume in piena.
A questo punto, visto che l’unica richiesta da me avanzata nel1’arrendermi non era stata rispettata, mi ottenni svincolato da qualsiasi accordo precedentemente preso con il Viviani e con il Cappelli. Mi diressi verso casa con l’idea di studiare bene le possibili mosse per informare i soci. Fra di loro ritenevo di avere molto credito e moltissimi amici. Ormai ero deciso a combattere, appellandomi a tutta la compagine sociale della Banca. Si doveva finalmente far luce su tutta la vicenda in una platea più ampia e sovrana come l’assemblea dei soci. Essa aveva il potere di delegittimare il Consiglio e anche di eleggerne uno nuovo.
Scrissi di getto una lettera destinata a tutti i soci, e nel corso della stessa nottata questa lettera fu spedita a tutti i soci dalle numerose persone amiche che intanto mi si erano strette intorno. La mattina seguente mi rec ai a Castelfiorentino.
Ancor prima dell’arrivo della mia lettera “Radio Fante”, come si dice dalle nostre parti, aveva svolto il suo ruolo e aveva diffuso la notizia del mio licenziamento di bocca in bocca come una medicina somministrata per via orale, nei bar, nei capannelli per strada, prima della pastasciutta nelle case.
Appena giunto a Castelfiorentino incontrai quindi una moltitudine di soci incuriositi e preoccupati che mi chiedevano il perché del mio licenziamento.
Ma nemmeno io in fondo lo sapevo. Avrei dovuto raccontar loro una storia lunga quanto questo libro.
La confusione nel mio cervello in quelle ore era tale che non ricordo più quali e quante persone incontrai.
A mano a mano che incontravo questi soci cresceva il desiderio di far chiarezza in una loro assemblea ordinaria.
In questo progetto trovai subito il sostegno di molti commercialisti di Castelfiorentino. Uno dei più noti fra loro, il ragionier Pier Giuseppe Cetti, mise anzi a mia disposizione gratuitamente i locali di sua proprietà a1l’incrocio fra via Masini e via Marconi. Assunsi temporaneamente una segretaria. Cominciai a contattare telefonicamente i soci disponibili a chiedere la convocazione della assemblea dei soci, la cosiddetta “Assemblea delle Minoranze” prevista dalla legge.
In base ad un articolo del codice civile e dello Statuto della Banca l’assemblea dei soci può essere infatti convocata quando almeno il venti per cento di loro ne faccia richiesta.
Alcuni giorni dopo fui informato dai miei amici commercialisti che essi si proponevano di costituire un comitato cittadino per raccogliere le firme per riunire l’ assemble a dei soci. Il comitato avrebbe avuto sede nei locali del Cetti.
L’iniziativa spontanea mi confortò e mi diede l’incoraggiante sensazione di avere tanti soci dalla mia parte. Presidente di questo comitato fu nominato il ragioner Cetti. Egli scrisse subito una lettera a tutti i soci in cui si affermava che gli scopi del comitato erano quelli di riportare al proprio posto il Cacialli, di nominare un nuovo Consiglio di Amministrazione, di allontanare il neo direttore Francesco Bosio.
Questi netti propositi, messi nero su bianco nelle lettere inviate ai soci dal Cetti e dal neonato Comitato, non durarono più di quindici giorni, il tempo famoso della durata delle decisioni di Firenze a cui Dante rimproverava: “A mezzo novembre non giugne quel che tu d’ottobre fili”. Castelfiorentino non era Firenze, ma era pur sempre in provincia.
Ma non anticipiamo i tempi e le delusioni.
Il Comitato iniziò subito la sua attività e molti soci aderirono alla iniziativa mentre anch’io, per quanto era possibile, gli davo una mano.