Nei giorni successivi a questo movimentato martedì Bosio, che era destinato a prendere il mio posto di Direttore Generale, veniva spesso nel mio ufficio tentando di convincermi a dimettermi dalla Banca per andare ad assumere cariche importanti. Mi metteva davanti agli occhi la direzione della Cabel Holding oppure la dirigenza della Invest Banca. Io capivo che queste proposte non erano farina del suo sacco. Erano solo lo zuccherino che mi veniva offerto da chi voleva il mio allontanamento dalla Banca senza fare tante storie.
Il giorno seguente a quel martedì, io, per un momento, feci finta di stare al gioco con il Bosio. Volli verificare fino a che punto potevano giungere le offerte perché io gettassi la spugna senza combattere. Simulai un improvviso interessamento alle sue proposte e mi accorsi che si era disposti anche ad “accrescere sensibilmente” la bella liquidazione che avrei avuto.
Capii allora che veramente la mia carriera era arrivata al capolinea. Non riuscivo a credere che ciò potesse accadere, dall’oggi al domani, così presto. Dovevo dunque lasciare la mia Banca, il gioiello che tutti mi invidiavano e per il quale, insieme ai miei colleghi, avevo speso un’intera vita. Dovevo dunque dire addio a Castelfiorentino, ai soci che erano amici, ai tanti affetti, ai troppi ricordi, insomma alla mia seconda famiglia.
“E no, caro Francesco – sbottai alla fine – non posso!”. “Neppure se mi offrissero la Presidenza della Repubblica. Gli affetti non si vendono e non si comprano. Sono disposto eventualmente ad anticipare la mia partenza in tempi ragionevoli, ma senza contropartite. Altrimenti che senso ha vivere? Vedi, io ho sempre condotto una vita modesta. Desidero solo lavorare ancora per la Banca e per me stesso. Vorrei solo che queste faide odiose cessassero per potermi rimettere al lavoro con tranquillità”.
Alla fine lo avvertii: “Francesco, comunica loro che lotterò, come è mia abitudine, fino alla fine. Saranno interessati anche i soci, sono sufficienti 450 soci circa per indire l’Assemblea delle Minoranze. Non è improbabile che riesca a raccoglierli. Poiché la Banca è una istituzione che interessa tutta la comunità, ho un appuntamento per venerdì prossimo con il sindaco Regini. I dipendenti ormai sono in agitazione. Valutate se non è forse conveniente anche per tutti un accordo”.
Il giorno dopo quest’incontro con il dottor Bosio era stato indetto (il 4 Marzo alle ore 16) il Consiglio di Amministrazione con il seguente ordine del giorno: “Situazione del rapporto con il Direttore Generale. Varie ed eventuali”.
La mattina di questo fatidico 4 Marzo chiesi ed ottenni un incontro con il Viviani nel suo studio alla Cabel a Empoli. Prima di entrare nell’ufficio del Viviani incrociai la signora Mariella Marconcini: mi guardò preoccupata e poi, a modo di presagio sinistro, mi disse: “Direttore, cercate di mettermi d’accordo. Sarebbe un peccato altrimenti”.
“Signora, sono qui per questo” risposi.
Entrai nella stanza del Viviani. Ci fu un momento di silenzio. Poi, come per ripescare un tenue filo di contatto fra noi accennai al nostro passato di profonda amicizia anche familiare. Conclusi che ormai purtroppo eravamo avversari ma, aggiunsi, dovevamo essere uomini e saper rinunciare ognuno a qualcosa. Era necessario trovare un accordo per definire quella incresciosa situazione nella quale ci trovavamo entrambi probabilmente non solo per colpa nostra, ma anche per colpa di amici comuni che, in buona o malafede, avevano esagerato fatti e apprezzamenti per dividerci.
La mia proposta che alla fine feci a Viviani era semplice. La mia permanenza a Castelfiorentino alla Direzione della Banca doveva essere garantita fino al rinnovo delle cariche sociali che scadevano con la fine dell’esercizio 2001. Ero inoltre disponibile a rivedere alcune mie deleghe che avrebbero consentito di giungere alla fine del mio mandato. Poi mì sarei proposto come candidato alle cariche della Banca secondo la volontà de11’Assemb1ea. Per tutta risposta mi sentii rinnovare, solo in forma più ancorata,
la vecchia proposta: “Ti posso offrire la Direzione della Cabel Holding o la Direzione della Invest Banca. Avrai infine un giusto riconoscimento dalla Banca di Cambiano”.
“Ti ringrazio – risposi – ma tu sai che per me la Banca di Cambiano è tutto. E’ una mia creatura per me come per te è la Cabel. Prima voglio finire il mio mandato alla Cambiano, si tratta in fondo di due esercizi al massimo”.
Il Viviani rimase un po’ soprappensiero.
Poi si commosse o fece finta di commuoversi e mi disse: “Mi dispiace, Beppe, ma io non posso farci niente. Il Presidente Cappelli è irremovibile”.
“Ma come – replicai io – non prendermi in giro, non mi dire che non puoi convincerlo, tu hai la maggioranza in Consiglio e puoi fare quello che vuoi”.
Avvertii che ero davanti ad un pirandelliano gioco delle parti. Il Cappelli affermava, come abbiamo visto sopra, che il mio licenziamento non dipendeva da lui. Il Viviani lo stesso. Sembrava che il mio licenziamento fosse stato deciso dall’alto dei cieli in un Consiglio di Amministrazione fra Padre, Figlio e Spirito Santo.
Non c’era neppure la lealtà di rivendicare le proprie decisioni a viso aperto nei miei confronti.
“Va bene – dissi – si vuole la guerra. Allora io mi difenderò come un leone ferito, come un padre a cui vogliono togliere un figlio. Io userò mezzi leali. Mi auguro che anche tu ti comporti lealmente. Sappi però che, comunque vadano le cose, saremo entrambi perdenti”.
Non salutai e uscii.
Nel pomeriggio del 4 Marzo si svolse il Consiglio dove si doveva decidere della mia sorte. C’era un clima irreale, una sorta di riservatezza da congiura carbonara. Il Consiglio era stato convocato nei vecchi locali in via Piave. Appena aperta la seduta il Presidente mi invitò ad uscire perché si doveva parlare di me, in parole povere del mio licenziamento.
Stanco e offeso scesi a fatica le scale che portavano al pianterreno: nella sala grande del piano terra vidi tutti gli impiegati della banca che per disposizione della R.S.A. (i responsabili del sindacato aziendale), erano riuniti in attesa delle decisioni del Consiglio. Sentii il frullio timido di alcune mani, poi uno scroscio fragoroso e generale di applausi.
Feci appena in tempo a balbettare “grazie”.
Poi fui sopraffatto dai singhiozzi e proruppi in un aperto pianto liberatorio. Sì, piangevo. Avevo sessanta anni, i capelli e i baffi bianchi, e piangevo come un bambino. La tensione degli ultimi giorni, la sofferenza per le tante coltellate di ingratitudine che mi avevano tagliato la mente nelle ultime ore avevano preso il sopravvento. Avevo trovato finalmente, seppure per pochi lunghi minuti, un attestato di stima da parte di coloro che mi erano cresciuti a fianco. Mentre mi asciugavo alla meglio le lacrime con le nocche delle mani il Bosio ebbe perfino l’ipocrisia di venirmi vicino a farmi coraggio.
C’era, accanto a me, un funzionario di cui non è opportuno che faccia il nome perché è ancora dipendente della Cambiano che mi disse:
“Direttore, si tolga di torno codesta persona che forse è uno degli artefici della sua disgrazia”.
Allora ebbi un gesto di ripulsa nei confronti del Bosio e gli dissi di andarsene con un epiteto terribile che non voglio ripetere qui.
Erano ormai le sette di sera. Il Consiglio era ancora riunito. Non era ancora stata presa nessuna decisione definitiva, come risulterà poi dai verbali della riunione.
Alcuni membri della rappresentanza aziendale salirono nella sala consiliare. Avvertirono i consiglieri che tutto il personale era riunito in assemblea permanente in attesa delle decisioni del Consiglio. Vennero decisamente invitati ad uscire. Gli si fece capire che il personale dipendente non aveva nessuna voce in capitolo nelle decisioni del Consiglio.
I dipendenti decisero allora di non sciogliere l’Assemblea fino a quando i membri del consiglio non se ne fossero andati. Mentre ero seduto con accanto lo Zingoni ed altri mi si domandava quanti dipendenti sarebbero rimasti ancora dalla mia parte quando sarebbero stati messi sotto pressione non appena il Bosio avesse preso il mio posto di Direttore Generale.
“Molti, molti pochi – riflettevo ad alta voce – alcuni che mi hanno applaudito lo hanno fatto perché ancora non sanno chi sarà il vincitore. Altri si rassegneranno perché non capiscono appieno una vicenda complicata. Altri perché avranno paura. Pochi rimarranno a sostenermi fino all’ultimo. Eppure, se fossero compatti, potrebbero essere l’ago della bilancia in questa triste storia”.
Alle sette e trenta il Consiglio finì. Anche i dipendenti sciolsero la loro Assemblea circa mezz’ora dopo. Nonostante tutto dagli atti del Consiglio risulta che non era stata presa nessuna decisione al riguardo (come appare dal verbale).
Nonostante l’accanimento nei miei confronti c’era evidentemente ancora qualche esitazione a dare un colpo di grazia che poteva provocare troppe resistenze o ribellioni.
Non vi era certamente unanimità nel Consiglio, e la ferma determinazione dei dipendenti era un altro grosso problema. Ma il Cappelli, come vedremo, senza alcuna autorità e potere volle compiere il suo atto, forse sollecitato dal suo consigliere personale Viviani. Infatti il giorno dopo, nelle prime ore del pomeriggio, mi fu consegnata la lettera del licenziamento in tronco (venerdì, 5 marzo 1999).
La mattina alle nove in punto, del famoso venerdì, entrarono nel mio ufficio i consiglieri Piero Casini e Benedetti Gianni e il sindaco revisore Isolani Marcello. Capii subito che si trattava dell’ultima ambasceria che mi si inviava dal duo Viviani-Cappelli perché mi arrendessi senza combattere prima di scatenare la guerra.
Prese la parola il Casini Piero. Mi pregò di trovare un accordo. Confermò che erano disponibili per me le cariche nella Cabel Holding o nella Invest Banca. Aggiunse anche, con una sorta di involontario umorismo nero, che al momento della mia partenza si sarebbe fatta anche una grande festa in mio onore.
Insomma una festa per avermi fatto la festa.
Per la verità le insistenze non furono tanto calorose. Il Casini e il Benedetti desideravano più un rigetto che una accoglienza delle loro proposte. Mentre mi parlavano mi chiedevano quasi clemenza per quello che dovevano fare. Era come se portassero addosso una maglietta con il vecchio detto per cui “Ambasciator non porta pena”. Penso quindi che furono quasi contenti quando, come si aspettavano, dissi ancora di no.
Dissi che io ero disposto ad accordi. L’avevo già detto la mattina prima allo stesso Viviani. Ma volevo rimanere al mio posto fino alla scadenza delle cariche sociali, poi mi sarei proposto, per eventuali cariche, rimettendomi alla assemblea dei soci.
“Perbacco! – sbottò l’Isolani Marcello – ma codesta proposta è proprio quella che anch’io più volte ho proposto al Presidente e al Viviani e che anche loro condividevano”.
“Ora mi sembra che non siano più d’accordo” aggiunsi io. Li informai che alle undici avevo appuntamento con il Sindaco di Castelfiorentino.
A quell’ora arrivai in Comune e fui subito ricevuto dal Sindaco Paolo Regini, a quel tempo ancora in carica. Lo conoscevo bene da tempo e lo ritenevo anche un amico sincero. Per la verità non ho mai frequentato uomini politici. Non sapevo quindi né delle loro logiche né delle loro imprevedibilità.
Raccontai al Sindaco tutta la mia storia nei minimi particolari: non mi vergogno a dirlo. Anche in quell’occasione il mio racconto era interrotto spesso dal pianto. Ero ormai stanco. Mi sentivo distrutto anche psicologicamente. Negli ultimi giorni sotto la crosta del funzionario coriaceo, appariva sempre più spesso il Giuseppe dei giorni neri. Le mie debolezze spuntavano sotto le scaglie del Cacialli burbero e tutto di un pezzo. Non riuscivo a giustificare tutto l’odio che mi si era scaricato addosso. Avevo perso troppi amici ritenuti eterni perché potessi trattenermi da sfogarmi non appena pensavo di trovarmi di nuovo di fronte ad un amico sincero.
Il Sindaco disse di apprezzare il mio gesto. Assicurò che sarebbe intervenuto in qualità di uomo super partes, “al di sopra delle parti”, come lui disse, per una rapida sistemazione della vicenda.